10 febbraio 2014 • Interviste, Vetrina Cinema
Una famiglia frammentata, un padre assente, due figli con il sacro fuoco dell’arte ma senza garanzie di futuro. Questo il quadro che propone l’ultima commedia firmata Carlo Verdone, tra i pochi registi ad aver sempre provato a raccontare questo Paese in maniera autentica, ridendo delle sue storture. Il segreto di una buona commedia è nell’occhio di chi osserva, questa la lezione del suo cinema: persino le sue maschere più riuscite e famose hanno un saldo ancoraggio al reale, rispecchiano vizi, nevrosi, tic e difetti degli italiani, sempre raccontati con bonarietà.
Serio, puntuale e con la cortesia che lo constraddistingue, Carlo Verdone ci racconta la sua nuova fatica cinematografica Sotto una buona stella, nata non a caso sotto la protezione di quello che lui stesso definisce “il mio angelo custode”: il segretario che lo ha seguito per 17anni, scomparso poco prima delle riprese, a 47 anni. “Non sapevo se avessi avuto la forza e la concentrazione per girare il film, alla fine, grazie a lui, ce l’ho fatta“.
Carlo, che tipo di personaggio è quello che interpreta nel film – da lei stesso scritto e diretto?
Un padre che se n’è andato di casa quando i bambini erano piccoli, si è divorziato presto e ricostruito una vita, è entrato in una holding finanziaria dove ha una carriera brillante. Un padre assente benchè puntuale nei pagamenti delle mensilità, poco amato dai figli e con una giovane compagna, ben interpretata da Eleonora Sergio. Anch’essa poco amata da loro. Quando la holding viene coinvolta in un grosso scandalo finanziario, la sua vita si rovescia. E da lì racconto la parabola discendente di un uomo di successo.
Usando il registro della commedia, affronta temi seri come la crisi, il precariato, gli scontri generazionali…
Esatto, tento di incanalare tutta l’ironia in un percorso di commedia brillante sui temi delicati di oggi. Nel film c’è un Carlo Verdone diverso, con momenti di serietà: non trovate gag, le situazioni di risate si creano nello scontro con il mondo esterno. Il risultato è una commedia con una grande leggerezza che tratta certi argomenti in maniera approfondita.
Per interpretare il ruolo dei suoi figli ha scelto Tea Falco e Lorenzo Richelmy.
Sì, due validi giovani attori. La prima ha tempi di recitazione tutti suoi, è l’accento astratto del film, una ragazza stravagante e originale ma interessante e rappresentativa di tanti giovani. Tea non è un’attrice udentificabile con nessuna altra, ha un primo piano pazzesco e una grossa spontaneità. Lorenzo mi ha stupito: è un attore formidabile, non solo bellissimo, e con l’anima. Sono stati bravi a interpretare una poetessa e ragazza madre, e un cantautore. Insieme a loro racconto l’emergenza familiare di un padre costretto a recuperare il dialogo con i figli. E anche, come dicevamo, il precariato: un sessantenne che si ritrova senza lavoro e giovani che non ne hanno garanzia.
E poi c’è Paola Cortellesi nel ruolo della vicina di casa amica e un po’invadente: come l’ha diretta?
A dir la verità non mi sono neanche reso conto di dirigerla, avevo poche indicazioni da darle, non è un’attrice a cui puoi suggerire nulla: la lasci fare e lei in cambio ti regala una performance con uno straordinario senso di misura. Mi piacerebbe girare un secondo film con lei.
La verità: quanto è nervoso Verdone sul set?
Per niente: ogni film è un figlio per me, e non voglio sentirne tutto il peso. Quindi metto ognuno a proprio agio, mi piace pensare al mio set come una sala giochi in cui tutti sono concentrati ma si divertono.
È stata un’annata importante questa per lei: come commenta la candidatura agli Oscar di La grande bellezza, che lei ha interpretato?
Sono contento di aver partecipato a un bel film che delinea lo sbandamento della società attuale, dove Roma è la scenografia di sfondo: non sono d’accordo con chi lo definisce un film su Roma, per me funziona piuttosto come dramma dell’umanità, per questo è stato riconosciuto anche a livello internazionale. Paolo mi ha diretto bene, io forse avrei potuto dare di più, ma mi sono attenuto alle sue indicazioni.
C’è qualcosa che non ha mai fatto ma le piacerebbe tanto osare?
Mi piacerebbe molto far parte di un film internazionale: so che ho una comicità molto basata sul mio paese, ma sarebbe bello potermi cimentare in una commedia brillante internazionale. Anche in un ruolo non estremamente comico.
Per finire, dando uno sguardo a tutta la sua carriera, che motivazione la spinge oggi a proseguire questo mestiere con la stessa tenacia?
Faccio cinema per fermare il tempo. O per lo meno illudermi di fermarlo. E sono contento quando incontro generazioni di giovanissimi, anche di soli undici anni, che conoscono a memoria tutte le battute dei miei film. Credo di aver raccontato in modo fedele qualche decennio d’Italia tra nevrosi e mitomanie: con ogni film provo a fermare un momento di ciò che stiamo vivendo.
Ed è soddisfatto del risultato?
In fondo sì: vedere che un tuo film di parecchi anni fa tiene, nonostante i tempi siano cambiati, lascia la sensazione di essere stato un bravo osservatore, e non soltanto un virtuoso.
di Claudia Catalli per Oggialcinema.net
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