All’inizio del 2011, il think-tank Conflitti&Strategie ed il suo vecchio blog – ormai inutilizzato ed oggi sostituito da questo sito – veniva bersagliato da diversi buontemponi che si divertivano a scovare nel nostro gruppo – attraverso esorbitanti perifrasi da nobel letterario – un presunto covo di filo-capitalisti e berlusconiani mascherati, una specie di “linea nera” del web, e una sorta di “quartier generale della borghesia” addirittura “supportato” da quei due o tre analisti de Il Giornale o di Italia Oggi con cui ci eravamo “azzardati” a discutere. Alla fine dell’anno tutte le tesi portanti e gli archi maestri teorici sostenuti da Conflitti&Strategie, sulla base – essenziale e senz’altro non collaterale – degli studi e delle pubblicazioni di Gianfranco La Grassa, vengono confermati dai fatti.
- La degenerazione della sinistra italiana lungo gli ultimi trentacinque anni e la sua riconversione in chiave neo-liberista con il parallelo, progressivo passaggio di campo geopolitico dal blocco sovietico a quello nord-atlantico, sono processi già previsti ed analizzati da La Grassa molto tempo fa,attraverso una lettura che ha dovuto solamente attendere di perfezionarsi con gli eventi più recenti quanto meno ad iniziare dalla nascita del Partito Democratico (2008).
- La particolare anomalia italiana rappresentata non dall’esistenza di un fenomeno Berlusconi – come la sinistra e Freedom House hanno sempre sostenuto – ma dalla presenza di un centro-sinistra etero-diretto da Londra e Washington, allineato in tutto e per tutto con i centri strategici del campo atlantico e con i più biechi settori della finanza anglo-americana.
- La debolezza strutturale di Berlusconi in quanto “statista dimezzato”, a causa della sua (in)cultura politica, della sua incapacità strategica (anche interna) e delle sue vicende personali, negative e deprecabili non tanto sul piano morale (non è questa la sede per dibattere di questo aspetto particolare) quanto piuttosto sul piano della ricattabilità in relazione alla tenuta e alla stabilità pubblica del governo, dimostrata in tutta la sua evidenza nel caso dell’aggressione neo-coloniale contro la Libia, dinnanzi alla quale Berlusconi è stato costretto a fare retromarcia per effetto di palesi pressioni internazionali (Obama, Clinton, Sarkozy e Cameron).
- L’interesse del vasto campo mediatico e “non-governativo” internazionale (Freedom House, Open Society Istitute, Financial Times, The Economist, Repubblica, Washington Post, Popolo Viola, Annozero ecc. …) nell’instaurazione di una campagna antiberlusconiana permanente finalizzata al boicottaggio non già della figura del presidente del consiglio, quanto invece dell’intero sistema industriale, economico ed istituzionale dell’Italia, soprattutto se pensato in connessione con la politica estera di apertura nei confronti della Russia, della Bielorussia, della Libia, dell’Iran e del Kazakistan.
- Il decisivo ruolo del presidente della repubblica Napolitano in merito alla gestione della crisi interna e delle decisioni internazionali.
- La scelta di una successione di matrice tecnica tra un elenco di papabili che andavano da Montezemolo, a Draghi, passando per Monti e Amato. Draghi è stato piazzato alla guida della BCE proprio nel momento in cui l’Italia si appresta ad indossare il suo cappio al collo, dunque si è scelto l’altro ex dipendente di Goldman Sachs, presidente della sezione europea della Commissione Trilaterale, nonché membro del Gruppo Bilderberg, Mario Monti.
Tutti questi punti sinteticamente riassunti confermano quanto abbiamo sempre detto e scritto perlomeno negli ultimi dodici mesi, e soprattutto a partire da quel fatidico 14 dicembre, quando un’intera pletora di cialtroni mise a ferro e fuoco (proprio come accaduto di recente) la città di Roma, per costringere – attraverso una qualche “vittima immolata” che non c’è stata – Berlusconi alle dimissioni. Dopo lo strappo di Fini in estate, le carte erano ormai scoperte, e la maggioranza doveva fare i suoi conti in tasca. Arrivò una fiducia striminzita, con qualche passaggio di emiciclo abbastanza frettoloso: la politica è un’arte poco nobile e per niente pulita, si sa. Non è questo il punto. Da allora, l’Italia e Berlusconi sapevano di essere sotto assedio. Sapevano che sarebbe bastata una piccola oscillazione per andare alla deriva. Con l’inizio del 2011, sono arrivate le rivolte arabe e tutti i sommovimenti studiati da Washington per rimescolare le carte in tavola e per tentare di adattare i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente alle nuove strategie Usa, perfettamente filtrate dall’evento messo cinematograficamente in scena per sancire la fine della stagione “bushana” contrassegnata della guerra frontale al terrorismo internazionale: la presunta cattura-uccisione di Bin Laden. Anche in quel momento di subbuglio internazionale arrivarono i buontemponi dell’antimperialismo stile ultimo Mao (“Grande è la creatività delle masse”, “L’Urss è ormai una dittatura borghese”, libretto rosso da “studiarsi a memoria” e altre amenità…), a commentare minacciosamente le nostre precisazioni analitiche su quelle che loro ritenevano le “sacre ed inviolabili” rivolte spontanee dei “popoli” e delle “masse” arabe in lotta contro la “dittatura”. Sin da allora, pareva chiarissimo che tra queste tesi da linbiaosimo posticcio e quelle lib-dem di Obama non ci fosse alcuna differenza sostanziale. In ogni caso, il dibattito si è concentrato sugli esteri e Berlusconi ha potuto barcamenarsi per dieci mesi, collezionando una serie di errori decisivi e trattando una resa a precise condizioni: tradire Gheddafi e l’intero popolo libico vittima dei bombardamenti della Nato, e lasciare entro la fine dell’anno la poltrona di primo ministro. I tanti personaggi di quel pagliaccesco panorama della sinistra italiana ci guardavano in cagnesco o ci lasciavano commenti minatori nel blog, pronti a sventolare le bandierine di un ridicolo CLN anti-B ed innalzando al vento i fucili virtuali che il gruppo editoriale di De Benedetti aveva consegnato ad ognuno di loro. Probabilmente nessuno tra questi energumeni ha mai letto con attenzione nemmeno mezza riga di quanto veniva scritto e pubblicato sul nostro sito. Eppure oggi, con fare da saccenti, pretendono di imporsi come baluardi del cambiamento, cercando di rendere egemone un’opinione di totale minoranza all’interno della pubblica opinione, che, da parte sua, ormai se ne sbatte alla grande dei loro sermoni sulla “crisi strutturale del capitalismo”, sulle fantomatiche “unità proletarie contro i padroni” o sui “crolli imminenti del sistema liberista”. Il fronte atlantico sta semplicemente redistribuendo le forze al suo interno, e Portogallo, Italia, Grecia e Spagna sono i Paesi al rimorchio che Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Germania intendono far retrocedere di qualche gradino per evitare brutte sorprese nell’arco mediterraneo. Per il resto, l’Europa rimane la nebbiosa arena di egoismi e di scontri interni che è sempre stata nella storia: appare ormai evidente che non esiste alcuna Unione, nessun sistema di “dominio globale” e nessun fantomatico mondialismo dell’“alta finanza transnazionale”, come invece i tanti complottisti di destra, anarchici o di sinistra si divertono a scrivere per nascondere le mancanze analitiche e i fallimenti personali nell’aver inseguito per decenni inutili surrogati di ideologie sepolte dalla storia. La corsa al riarmo di tutte le principali potenze globali dell’Ovest e dell’Est, il ritorno di Washington alle velleità multilaterali degli anni Novanta ed il mirato, chirurgico invio di truppe statunitensi in Africa attraverso il comando militare di Africom, dimostrano che l’instabilità internazionale non fa che aumentare giorno dopo giorno e che precise nazioni strategiche della dorsale centro-settentrionale del Continente Nero costituiscono il prossimo campo di battaglia per una sfida del tutto inedita tra Stati Uniti e Cina, trasferendo il pivot dello scontro strategico più a sud rispetto a quel Medio Oriente su cui continuano invece a concentrarsi veline e indiscrezioni specie nella testa (dura) di chi non riesce a fuoriuscire dal quadro ideologico imposto per anni dalla dialettica sionismo/antisionismo. Durante la crisi libica, le posizioni di Hamas e dell’Iran erano de facto simili, se non identiche, a quelle della Nato, la Turchia ha immediatamente scaricato la Siria di Assad ospitando l’opposizione religiosa in esilio, il Qatar ha ben presto fornito le sue basi militari per l’attacco della coalizione atlantica contro Gheddafi, mentre i carri armati dell’Arabia Saudita hanno coadiuvato la repressione delle autorità del Bahrein contro le proteste interne: se a questo quadro aggiungiamo le nette divergenze tra la lettura dominante negli Stati Uniti (rivolte arabe come liberazione dalla “tirannia”) e l’opinione di gran parte dello stato maggiore di Israele (rivolte arabe come “re-installazione di governi islamisti”, pericolosissimi per la sicurezza dello Stato ebraico), risulta evidentissima la complessa frammentazione di un mondo islamico per anni pensato come un monolite anti-occidentalista, tanto dai falchi neo-conservatori statunitensi quanto dai loro contestatori “antimperialisti” sparpagliati nel mondo occidentale, subito pronti a disegnare schemini duali tanto nell’ambito della politica economica quanto in quello della politica internazionale. Non c’è alcun crollo imminente del “capitalismo”, così come in noi non c’era mai stata alcuna simpatia per il governo Berlusconi e tanto meno per la sua figura di politico, su cui – specie a partire dalla crisi libica, questo sì – ci sarebbe da stendere un velo pietoso.
E ora siamo qui, con una mano davanti e l’altra dietro, ad aspettarci il peggio e a dover dire amaramente: ve l’avevamo detto.