Magazine Diario personale

Faccio progressi

Da Lipesquisquit

C’è un livello di protesta che non è contemplato da nessuno e che tecnicamente non vale niente, nel senso che per gli umani non vale niente, ma se arrivassero degli alieni spietati che usano protestare in quel modo, o se esistesse un Creatore che ne tenesse conto, allora varrebbe qualcosa. Si tratta della non partecipazione, la risposta negativa agli stimoli sia delle istituzioni che delle persone, ed è sempre stata la mia forma di protesta preferita, anche se il problema del protestare non partecipando è che generalmente non paga. La non partecipazione è una protesta che non solo non viene recepita, ma non viene proprio concepita, nessuno si aspetta che una persona possa comportarsi così, e sta proprio in questo la sinistra gioia del non partecipare: ti trovo patetico e ti snobbo, e non te lo faccio sapere perché con quelli come te io non voglio parlare. Ti farei un favore, a parlarti o a dedicarti una parte di me, e infatti non lo faccio. Ma andiamo per ordine.
Nella vita uno riceve stimoli dai genitori, dai parenti, dalla scuola, dalla chiesa, dalla televisione, dalla gente, dal capo, dal collega, dagli amici, dai nemici, dalle ragazze, ecc. Chiunque, a qualunque livello, in qualunque situazione, ti stimola, ti punzecchia, ti lancia un input, un messaggio, ti sprona a fare qualcosa, a schierarti, e tu puoi o accettare e approvare, o rifiutare, metterti dall’altra parte, protestare, e di solito si protesta con una immancabile componente comunicativa, cioè si fa dialettica, si lotta, si fa casino e ci si fa notare, perché uno deve almeno provare ad imporsi, a mettersi in mostra, a ribadire “sono qui, ti sto dicendo questa cosa e voglio che tu mi ascolti”, altrimenti che protesta è?
È a questo punto che io di solito mi chiedo, onestamente, chi me lo fa fare? Nel senso di: quale forza, che non c’entra nulla con la mia sincera volontà, mi sta trascinando, in questo momento? Se tu sei il mio avversario, se tu non sei d’accordo con me o io non sono d’accordo con te, perché dovrei partecipare a questo gioco dialettico e darti udienza, darti soddisfazione? Non è più coerente tirarsi fuori e non scambiare nulla, non degnarti della mia partecipazione e dei miei stimoli? Perché, sintatticamente e semanticamente parlando, io dovrei farti guadagnare qualcosa? Quando dico protesta, io intendo anche comunicazione, apertura, considerazione del prossimo. La protesta comunemente intesa, la protesta partecipata, è una forma di solidarietà: io ti faccio da oppositore, ti faccio resistenza perché in fondo spero che tu, da questa esperienza anche forte, da questa incazzatura che ti sto provocando, alla fine imparerai qualcosa. Non protesto per me, perché a me, tranna una piccola soddisfazione, non cambia nulla: io protesto per te, per insegnarti una lezione, perché mi sta particolarmente a cuore che tu capisca, perciò mi incazzo, ti do addosso e protesto. C’è molta bontà nel reciproco protestare, incazzarsi e azzuffarsi, c’è una gran voglia di comunicare, di mandare messaggi, di dire le cose che si vogliono dire, se non a parole, almeno a urla, a insulti, a sputi, a cazzotti, a calci. Alla fine del casino, tu avrai imparato qualcosa che senza di me, senza la mia protesta, non avresti mai conosciuto: anche se ci stavamo sui coglioni e apparentemente ci volevamo del male, abbiamo comunicato. È paradossale e bellissimo. Sebbene violenta o volgare, la protesta partecipata significa “ti sto prendendo in considerazione, ti sto dedicando del tempo, meriti il mio tempo”, ma significa soprattutto “ti riconosco come un mio simile”, “ti considero degno della mia parola”, “ti reputo al mio livello”, ed è una cosa fottutamente seria: dietro all’aggressività, dietro all’urlarsi in faccia o prendersi a schiaffi, dietro alle reazioni spontanee da bestioni nervosi, c’è tanta voglia di comunicare, c’è tanta umanità.
Ebbene, riuscire a raggiungere questo livello di comunicazione è il mio attuale obiettivo, perché io lì, onestamente, non ci arrivo molto volentieri. Mi dà sinceramente fastidio partecipare ai giochi della gente, mi sembra di dover pelare patate marce, di dover lavorare con qualcosa di altamente sgradevole, qualcosa che sporca e che puzza. Soprattutto, partecipare a prescindere, e litigare, e impuntarmi, e controbattere con spirito romantico ogni volta che ce n’è bisogno, non mi fa tornare i conti nella testa, perché è una questione di coerenza: se mi stai sui coglioni, io non posso dedicarti attenzione, non posso darti nemmeno un atomo di me, sarei stupido a farlo, non posso sprecare le mie connessioni sinaptiche pensando a te, che non solo non conti nulla per me, ma mi stai pure sui coglioni. La mia reazione media al dissenso o alla resistenza altrui, è il silenzio, il finto assenso, la non partecipazione: non me ne frega veramente un cazzo delle discussioni, e non è per modo di dire. Non posso fermarmi lì a rispondere e dare importanza al mio interlocutore che fa di tutto per causarmi fastidio. Preferisco di gran lunga dargli lo zuccherino, fargli credere di avermi teoricamente zittito; finita la scenetta, me ne vado per la mia strada. Sarà pure brutto, posso capirlo, però è coerente: io con te ci parlo solo se davvero ti considero, e sono pochi i casi in cui ti considero. Potrei dedicarti attenzione e partecipare alla tua umanità al massimo in tre casi: se mi conviene, o se mi fai pena, o se ti voglio proprio tanto, ma tanto bene.
Temo proprio di essere, nella maggior parte dei casi, un autentico, freddo pezzo di merda, perché io non ho mai avuto tutta questa apertura, neanche da piccolo con gli altri bambini, e in fondo non voglio averla nemmeno ora che mi pongo il problema. Questa non è indifferenza nel senso peggiore del termine, non è malvagità tipo campi di sterminio: la vita umana vale, le persone sono esseri coscienti, ecc ecc, non farei mai del male fisico a nessuno e non ho mai fatto a pugni in vita mia. Però, da qui alla totale apertura al prossimo, dal rispetto basilare per gli individui al voler comunicare con gli umani sempre e comunque, c’è veramente un abisso, c’è una montagna da scalare, e la gente di solito non se ne accorge, nascono tutti già in cima alla montagna. Io invece ho realizzato ora che dovrei cominciare a scalare quella montagna: il problema è che voglio scalarla non perché ho scoperto di essere solare e ora ho tanta voglia di comunicare con gli altri, ma perché lo voglio per me, perchè mi dà fastidio privarmi di qualcosa di umano. Sto cercando di comunicare più di prima, di essere meno avaro d’umanità, di essere non solo ricettivo, ma anche trasmissivo, insomma di darmi di più al prossimo, però lo sto facendo per appagare al meglio il mio individualismo. Non sembra, ma questo è un gran passo in avanti.

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