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Fair Play Finanziario, stadi, partecipazione della tifoseria alla gestione delle società: una chiacchierata con Umberto Gandini, Direttore Organizzazione AC Milan

Creato il 02 maggio 2013 da Tifoso Bilanciato @TifBilanciato

La stagione che si avvia alla conclusione è probabilmente fra quelle che hanno emergere, a livello europeo, la maggior quantità di dibattiti su tematiche che non hanno una diretta attinenza con il campo da gioco.

Abbiamo chiesto al dott. Umberto Gandini(@UmbertoGandini), Direttore Organizzazione dell’AC Milan e Vice-Presidente dell’ECA (European Club Association) di aiutarci a decifrare meglio quello che sta accadendo, grazie alla sua esperienza di addetto ai lavori.

 

 

 

D: Dott. Gandini, iniziamo dall’argomento principe della discussione degli ultimi mesi: l’entrata a regime del Fair Play Finanziario. Com’è nato questo progetto e fino a che punto è stato un percorso sul quale l’UEFA ha cercato la condivisione con gli altri attori protagonisti?

Mi piacerebbe innanzitutto dire che non ho mai troppo amato l’aggettivo “fair”, soprattutto perché non mi sembra corretto che chi non supera i requisiti sia identificato come “unfair”. Mediaticamente, però, l’idea ha avuto successo, quindi si è continuato a utilizzare il “Fair Play Finanziario”, mutuandolo dal fair play sul campo.

 

Il progetto è frutto di un percorso condiviso, nato dallo spunto del Presidente Platini ma, poi, ragionato fra UEFA, le squadre di calcio (rappresentate dall’ECA), le Federazioni e i calciatori (rappresentati dalla FIFPro).

La primissima idea nasce in realtà durante la Finale di Champions League di Mosca del 2008, che vedeva scontrarsi Manchester United e Chelsea. Due Club che, per motivi diversi, in quel momento presentavano  debiti molto elevati: lo United per l’operazione di acquisto avvenuta in precedenza, il Chelsea per la volontà del patron Abramovic di raggiungere posizioni di preminenza in Europa rapidamente.

Il Presidente Platini riteneva, inizialmente, che occorresse giungere all’eliminazione totale dei debiti da parte delle squadre. In ambito ECA abbiamo fatto però osservare che la presenza dell’indebitamento bancario, di per sé, non rappresenta un fattore negativo, tanto è vero che è tradizionalmente presente in tutte le aziende, di tutti i settori industriali.

Da lì si è partiti per costruire un regolamento che fosse centrato sul pareggio di bilancio, nella convinzione che quello fosse un obiettivo realmente interessante per tutti. E, non di secondaria importanza, nell’identificazione di alcuni parametri che aiutassero a verificare la sostenibilità del debito: questo è il vero tema.

 

 

D: Entro la fine di giugno dovrebbero essere note le prime osservazioni da parte dell’UEFA Club Financial Control Body, (l’organismo creato in ambito UEFA per gestire da un punto di vista procedurale e di merito tutte le valutazioni inerenti il rispetto dei requisiti del Fair Play Finanziario, ndr). Che tipo di relazione esiste, in concreto, fra i singoli Club e il CFCB? Tutto avviene per via mediata dalle Federazioni nazionali e dalla UEFA, oppure sono stati organizzati incontri e riunioni anche con i soggetti primari, cioè i Club, per avere un confronto concreto e pratico sui singoli aspetti?

Il rapporto fra i singoli Club e il CFCB è diretto: ciascuna squadra provvede ad inviare dati e documentazione perché questa venga esaminata ai fini delle valutazioni relative al Fair Play Finanziario.

Non ci attendiamo in realtà grandi differenze di approccio fra questo nuovo interlocutore e quelli che già sovrintendono i bilanci dei Club (la società di revisione per il bilancio civilistico; la COVISOC per la licenza nazionale), nel senso che ragionevolmente il CFCB potrà chiedere dei chiarimenti o delle integrazioni alla documentazione fornita e poi inizierà un contraddittorio per giungere ad una posizione condivisa.

Se dovesse accadere che, su determinate questioni, la posizione del CFCB diverga da quella della Società e se questo conflitto portasse a determinare delle sanzioni a carico del Club, allora verrà attivata la tradizionale procedura con i passaggi dinanzi alla Commissione Disciplinare e, successivamente, al TAS di Losanna.

 

 

D: Che atteggiamento si aspetta dal CFCB in questa prima fase di applicazione del Fair Play Finanziario?

Credo che il CFCB adotterà inizialmente un atteggiamento meno formale e più sostanziale. Intendo dire che il percorso di messa a regime della nuova normativa è stato volutamente costruito per fissare in modo chiaro l’obiettivo, ma anche per mettere i Club in condizione di rispettare i requisiti in tempi ragionevoli. Ci sono, infatti, componenti strutturali (la diversificazione dei ricavi, il costo della rosa, le fonti di finanziamento) che non possono essere cambiate nell’arco di una o due stagioni.

Ritengo che il CFCB porrà particolare attenzione nel verificare se, in caso di mancato rispetto di uno o più parametri del Fair Play Finanziario, la Società abbia iniziato un percorso virtuoso per giungere al risultato atteso o se, invece, si sia disinteressata del problema.

La decisione di identificare un set di sanzioni che parte dal “richiamo” per giungere al “ritiro del titolo” consentirà al CFCB di dosare opportunamente il suo intervento, tenendo conto del contesto generale all’interno del quale una squadra si è mossa. Non mi attendo quindi un approccio da “Tribunale dell’Inquisizione”, per intenderci, quanto piuttosto un ruolo di gestione delle problematiche emergenti. In maniera ferma e decisa (d’altra parte, il CFCB nasce per questo e non può snaturarsi), ma in un certo senso “comprensiva”.

In ogni caso è bene ricordare che le valutazioni che espresse dal CFCB durante il 2013 riguardano i bilanci 2011/2012, ovverosia una delle due annualità che compongono il primo periodo di osservazione. Quindi questo primo anno sarà una tappa di avvicinamento alla verifica della primavera 2014, che sarà il primo momento in cui saranno determinate le sanzioni.

 

 

D: L’argomento sul quale tutti attendono di capire cosa accadrà, e che molti ritengono la cartina tornasole per capire se il Fair Play Finanziario è “una cosa seria”, è quello del valore delle sponsorizzazioni derivanti da soggetti definibili come parti correlate: l’esempio più eclatante è quello del contratto del Paris Saint-Germain con la Qatar Tourism Authority, addirittura siglato con effetto retroattivo sul 2011/2012. Qual è la sua opinione su quello che potrà accadere?

Indubbiamente il caso della sponsorizzazione del PSG da parte della Qatar Tourism Authority è particolare. Molto dipenderà da come i legali del PSG riusciranno a giustificare il valore (e la retroattività) del contratto di sponsorizzazione nell’ambito dei “rapporti con parti correlate”. Se devo essere sincero … nessuno di noi invidia in questo momento il PSG! Dimostrare che una sponsorizzazione di 150 milioni rientra nel concetto di “fair value” è complessa e, per quanto mi riguarda, difficile. Ma devo anche dare per scontato che se si sono mossi in questo modo avranno costruito un’efficace linea di difesa.

Per quanto riguarda il supporto della Federcalcio Francese, credo che sia naturale. Tra l’altro è importante ricordare che questo tema del “fair value”  è specifico della normativa sul Fair Play Finanziario, mentre non rileva nel processo di valutazione interno della stessa Federazione. Per la quale, quindi, il bilancio del PSG non è stato passibile di rilievi.

 

D: Quali sono gli elementi del Fair Play Finanziario che, a suo avviso, avrebbero bisogno di ulteriori riflessioni?

Mi fa piacere che mi abbia posto questa domanda, perché credo che la discussione negli ultimi mesi sia stata troppo concentrata sulle sponsorizzazioni di PSG e Manchester City, mentre ci sono altri aspetti per i quali, credo, non sia ancora stata trovata una soluzione che garantisca un’omogeneità di valutazione. Intendo dire che esistono delle differenze nei principi contabili delle singole nazioni UEFA e nei processi di valutazione che in questo momento non rendono tutte le squadre “uguali” rispetto ai meccanismi del Fair Play Finanziario.

Un primo esempio è la sostanziale assenza di certificazione dei bilanci da parte di buona parte delle squadre appartenenti alle federazioni dell’Europa dell’Est (inclusa la Russia). Ho massimo rispetto, ovviamente, della correttezza di proprietari e azionisti di quelle Società, però è anche vero che abbiamo una parte di mondo UEFA che ha delle procedure stringenti e si sottopone ad un controllo di un terzo (la società di revisione), mentre c’è un’altra parte dello stesso mondo che, potenzialmente, può redigere dei bilanci e fornirli al CFCB senza che questi siano oggetto di verifiche da parte di terzi.

 

Un secondo esempio riguarda una peculiarità della legislazione spagnola, che fa sì che i contributi annuali dei soci siano considerati alla stregua di normali ricavi. Questo, specialmente nel momento in cui si è cercato di lanciare un segnale contrario al “calcio dei mecenati” è un po’ incoerente: perché, ad esempio, i circa 180.000 soci del Barcelona possono finanziare annualmente la loro squadra e Abramovich (per dire un nome a caso) no?

 

Un terzo esempio riguarda un aspetto che ha recentemente portato addirittura all’apertura di una procedura di infrazione da parte della Commissione Europea, che contesta a club olandesi e spagnoli di essere stati beneficiari di “aiuti di stato”. Bene, anche in questo caso è noto che in alcune aree UEFA i governi, direttamente o attraverso delle controllate, erogano cospicui contributi alle squadre, magari sotto forma di sponsorizzazioni o benefici fiscali.

 

Purtroppo sono tutti argomenti di non facile risoluzione, perché è evidente che le società di calcio sono, innanzitutto, soggette alle singole legislazioni della propria Nazione e, quindi, elaborano il proprio bilancio nel rispetto di tali normative. Capisco anche che sarebbe forse difficile mappare tutte queste specificità allo scopo di identificare dei criteri di armonizzazione al momento della verifica da parte del CFCB.

Quello che però spero accada è che, rapidamente, gli argomenti vengano ripresi e discussi. Per poi magari giungere alla determinazione che non esistono soluzioni praticabili, ma almeno ci avremo provato.

 

 

D: Considerando che uno dei maggiori “problemi” del calcio europeo è rappresentato dai costi della rosa, sia nei valori di compravendita sia, soprattutto, nei salari dei giocatori, non sarebbe stato possibile mutuare l’idea di salary cap così come applicata negli Stati Uniti?

La realtà americana è molto diversa dalla nostra. Si tratta di Leghe che sono “chiuse”, senza retrocessioni. Il numero di soggetti che devono condividere un certo approccio è contenuto e direttamente interessato. Non credo, quindi, che il modello statunitense potrebbe essere applicato tal quale.

Il contenimento dei costi degli stipendi dei giocatori è effettivamente un obiettivo che la maggior parte del Club hanno (pur essendo talvolta essi stessi responsabili di tale corsa). Si scontra, però, con una serie di ostacoli non facilmente superabili:

  • la necessità che la regola eventualmente introdotta venga applicata in tutto l’ambito UEFA; differentemente si creerebbero delle discrasie che porterebbero all’impoverimento di alcuni campionati a vantaggio di altri;
  • la disponibilità delle principali “vittime” di queste decisioni. Per il momento l’atteggiamento del FIFPro (sindacato calciatori europeo) è stato di ascolto ma senza far intravedere particolari disponibilità ad un accordo.

 

Nel frattempo, comunque, i Club europei sempre più spesso stanno siglando dei contratti che prevedono una quota di stipendio fisso ed una variabile, nel tentativo di legare per quanto possibile anche questa componente di costo ai risultati ottenuti, in modo da autofinanziare (per quanto possibile) i costi con i proventi addizionali.

 

 

D: Cambiamo argomento e passiamo ai tifosi. In Europa sta crescendo il dibattito sulle modalità di partecipazione dei tifosi alla vita della squadra, anche attraverso vere e proprie acquisizioni di quote del Club. La Supporters Direct sta portando avanti un progetto finanziato dall’Unione Europea. Ci piacerebbe avere una sua opinione su questo fenomeno, in particolare su eventuali problematiche e vincoli che lei ritiene possano impedire una progressiva diffusione in Italia.

Credo che ciò che accade in Europa sia molto interessante. Credo altrettanto, che molto dipenda da un fattore culturale delle singole nazioni.

Intanto in Inghilterra il tifoso-azionista esisteva; oggi quasi non c’è più. Quindi anche quella che era la “patria” di questa cultura ha in realtà abbandonato nell’ultimo decennio questa consuetudine: le società di Premier League sono in mano normalmente a investitori privati o, comunque, hanno una struttura di controllo facilmente riconducibile ad un soggetto preciso, esattamente come accade in Italia.

La Germania è certamente la nazione dove questo modello è più diffuso.

Intanto perché al momento della trasformazione delle società di calcio da associazioni “no profit” a società normali la normativa ha espressamente previsto che la regola del “50+1”, ovverosia che non potesse esistere un soggetto che possedesse da solo il controllo di una squadra.

Però, per tornare al concetto della tradizione culturale, non dobbiamo dimenticare che la Germania è  una Nazione dove l’intero sistema economico è basato sul concetto di partecipazione: mi riferisco in particolare al coinvolgimento diretto dei dipendenti nella gestione delle società. È chiaro che sia quasi naturale che anche la squadra di calcio veda i tifosi avere un ruolo importante.

 

Se veniamo all’Italia, devo dire che sono un po’ scettico sull’effettiva possibilità che modelli di partecipazione dei tifosi possano affermarsi, proprio per una questione di cultura ed anche perché il modello di gestione fino ad oggi utilizzato costringeva i proprietari ad importanti iniezioni di denaro annuali per supportare la squadra, cosa che metterebbe probabilmente fuori gioco il tifoso normale.

Che io sappia, delle squadre di Serie A, solo il Genoa ha un’esperienza di questo tipo, perché il 25% del proprio capitale sociale è stato regalato anni fa dal Presidente Preziosi alla “Fondazione Genoa”.

Ecco, forse questo potrebbe essere un modello interessante, perché la Fondazione Genoa ha diritto a partecipare alle nomine degli organi sociali del Genoa (Consiglio di Amministrazione e Collegio Sindacale) e, quindi, in un certo senso può svolgere una funzione di garanzia rispetto alla gestione della Società.

Non escludo che in futuro l’approccio possa cambiare. Anzi, forse, se le società di calcio diventeranno veramente autosufficienti, si potranno studiare modalità di partecipazione alla vita sociale. Ma credo sarà difficile trovare situazioni paragonabili a quelle di Barcelona, Real Madrid e Bayern Monaco.

 

 

D: Veniamo adesso a casa nostra, in Italia. Ad inizio aprile è stato pubblicato Report Calcio 2013, una fotografia del nostro calcio professionistico. Dal dibattito emerso dopo la pubblicazione, la soluzione invocata sembra essere solo una, sempre la stessa: “facciamo presto ad approvare la legge sugli stadi”. Ci può raccontare la sua visione sugli stadi di proprietà e, nei limiti di quanto è possibile, la strategia del Milan per utilizzare anche questa leva per incrementare e diversificare i ricavi del Club?

Le squadre italiane, più di altre appartenenti ai cinque campionati (i Big-5) dipendono fortemente dai diritti televisivi e, nel caso delle grandi, dalla partecipazione alle competizioni europee. Purtroppo i ricavi di natura commerciale e quelli derivanti dallo sfruttamento dello stadio sono ancora marginali.

Credo che lo slogan “stadio di proprietà” tragga però in inganno. Non è la proprietà dell’impianto che fa la differenza, quanto la possibilità di sfruttamento dello stesso da parte della squadra, incrementando l’offerta verso la clientela business (fatta anche di Sky Box), offrendo alternative interessanti al tifoso (il Museo della squadra, negozi per la vendita dei prodotti ufficiali, spazi per convegni ed incontri).

Bisogna però fare attenzione a considerare gli esempi internazionali come automaticamente “importabili” sul nostro territorio. Penso a Milano e, nonostante sia forse la “capitale economica” del Paese, fatico a pensare di poter trovare lo stesso tessuto economico presente, ad esempio, a Monaco di Baviera.

Tanto è vero che la Juventus, che pure è la squadra col massimo seguito di tifosi in Italia, ha prescelto il dimensionamento dell’impianto a 41.000 posti. Non so dire se sia stata una scelta corretta o sbagliata; posso pensare che abbiano perseguito l’obiettivo di avere un load factor costantemente vicino al 100%, per avere il massimo beneficio nell’ambito di un investimento sostenibile per la squadra.

 

Per quanto riguarda Milano, credo che ci siano i presupposti perché la Città abbia due stadi.

Il Milan vuole rimanere a San Siro e se ci fosse la possibilità di farlo diventare un impianto esclusivamente dedicato al Milan saremmo ben felici di studiarla e, laddove possibile, di rendere operativo un progetto. Probabilmente i vincoli che oggi ci impediscono di sfruttare appieno l’impianto (in particolare il reciproco rispetto delle necessità nostre e dell’Inter) verrebbero meno e, allora, potremmo incrementare la quota di ricavi da gare che attualmente temo sia arrivata quasi al massimo di quanto ci sia consentito ottenere nell’attuale situazione.

 

Tornando al dibattito nazionale, vorrei però aggiungere che l’investimento su un nuovo stadio non è per tutti: occorre fare molta attenzione alla componente di indebitamento finanziario che viene generato, che deve essere alla portata del Club.

Forse per questo, in passato, ci sono stati tanti progetti che sostenevano l’investimento sportivo con attività a latere di natura commerciale o residenziale che consentissero un rientro della spesa effettuata.

Non ci vedo nulla di male, perché l’obiettivo di un investitore – ancor più oggi con il Financial Fair Play – deve essere quello di intraprendere delle iniziative redditizie e che portino un beneficio.

Però la componente sportiva, cioè l’impianto, dovrebbe rimanere sempre l’elemento centrale del progetto e non esserne un corollario.


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