Lavoro, terra e denaro: tre cose che, se diventano “merce”, decretano la fine del sistema sociale ed economico. Difatti, eccoci qua: globalizzazione, delocalizzazione delle produzioni, precarizzazione del lavoro, diseguaglianze crescenti, finanziarizzazione del comando capitalistico. Debito, pubblico e privato, come strumento di imbrigliamento della società, della politica e del lavoro. E poi guerre, crisi e insicurezza come condizione umana permanente. Fino a quarant’anni fa i meccanismi portanti dell’accumulazione del capitale erano stati il mito dello sviluppo economico e la crescita di salari, consumi e welfare: una sintesi di fordismo e politiche keynesiane governata con la continua espansione della spesa pubblica e l’intervento dello Stato nell’economia. Non era un mondo perfetto, come provvide a ricordare la grande contestazione del ’68. E oggi? Stiamo ancora peggio. E siamo alla vigilia di un nuovo, clamoroso cambio di paradigma: sarà valido soltanto ciò che potrà essere sostenibile.
Lo afferma Guido Viale in un recente editoriale sul “Manifesto”: crescita e sviluppo sono ormai ritornelli ricorrenti ma privi di senso, perché la crisi ambientale sbarra la strada a ogni espansione economica che non sia anche e soprattutto devastazione. Cosa c’è all’origine della catastrofe? La finanziarizzazione dell’economia, da tutti individuata come causa principale della crisi, «non è che il compimento parossistico di un processo iniziato oltre due secoli fa». Karl Polanyi l’aveva chiamato “la grande trasformazione”, ovvero «la riduzione a merci di tre cose che merci non possono essere, pena la distruzione della vita associata», oltre che della nostra stessa sopravvivenza sulla Terra. «Quelle “tre cose” che continuano a rivoltarsi contro la loro riduzione a merci (Polanyi le chiamava “merci fittizie”) sono il lavoro, la terra e il denaro». Mentre la lotta dei lavoratori contro la loro mercificazione parla da sola, l’appropriazione delle terre – alla base della primitiva accumulazione del capitale – si rinnova oggi col pretesto industriale della “green economy”.
Quanto al denaro, delle sue tre funzioni fondamentali – misura del valore, mezzo di scambio e oggetto di accumulazione – la finanziarizzazione non è che il definitivo sopravvento della terza funzione sulle altre due: il prezzo delle merci, spiega Viale, è ormai determinato dalle speculazioni su di esse più che dal valore o dal contributo degli input produttivi e degli scambi. Il nostro accesso ai beni e ai servizi in commercio è sempre più mediato da qualche forma di debito, che è lo strumento fondamentale della finanziarizzazione. «La crisi in corso non è altro che questo. Perciò, anche se non abbiamo un modello preciso a cui ispirarci, sappiamo che l’uscita dalla crisi dovrà necessariamente incorporare forme nuove di controllo sociale sul lavoro, sui beni comuni e sul credito», cioè l’attività delle banche, «perché denaro e credito sono in gran parte la stessa cosa». L’euro? La causa degli squilibri non è la moneta comune, ma il modo non-sovrano in cui è governata: «Cioè i limiti, che le altre valute mondiali non conoscono, imposti alla sua gestione per trasferire meglio all’alta finanza il comando sulle politiche economiche nazionali e per portare avanti l’attacco a occupazione, salari e welfare».
Il nuovo paradigma che può e deve prendere il posto di quello fallimentare imposto dal pensiero unico liberista è la sostenibilità ambientale, dice Viale: «La si chiami decrescita, conversione ecologica, giustizia sociale e ambientale o economia dei beni comuni (senza pretendere di annullare le differenze tra questi approcci) è l’unica soluzione che può garantire equità nella distribuzione delle risorse, salvaguardia degli equilibri ecologici e recupero del know-how, del patrimonio impiantistico e dell’occupazione che il sistema economico attuale sta mandando in malora: una fabbrica dopo l’altra, un paese dopo l’altro». Nuovo paradigma «intrinsecamente democratico», dunque, perché «indissolubilmente legato a uno sviluppo della partecipazione», dal momento che «non può affermarsi senza il concorso dei saperi diffusi presenti sul territorio e l’iniziativa dei lavoratori e delle comunità interessate». Altro requisito-chiave: il valore strategico del territorio come rete economica a corto raggio, basato sulla ri-territorializzazione dei servizi, restituiti a forme di gestione condivise. Partecipazione a chilometri zero: la migliore arma contro gli effetti nefasti della globalizzazione.
Tratto da: Libre Idee, “Futuro sostenibile: lavoro, terra e denaro non sono merci”
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