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Falstaff: il corpo-teatro di Giuseppe Battiston/Andrea De Rosa

Creato il 09 gennaio 2015 da Onesto_e_spietato @OnestoeSpietato

Il teatro di Andrea De Rosa strappa applausi incerti, freddi, confusi. Perché confuso rimane lo spettatore di fronte a tanta, forse troppa, potenza visiva. Dopo La tempesta del 2009 e il Macbeth del 2012, Andrea De Rosa torna a cimentarsi con Shakespeare, proponendoci Falstaff nelle possenti e goduriose vesti di Giuseppe Battiston.

FalstaffPresente ben in due opere del Bardo, l’Enrico IV e l’Enrico V, e in questa versione teatrale mescolato addirittura con la commedia lirica di Arrigo Boito, il personaggio del buffone shakespeariano si erge a re della scena, sovrano di un pollaio dove non semel, ma semper in anno licet insanire.

Andrea De Rosa ci scaraventa in un’apologia del corpo, in un lupanare rock, come in un pulcioso night club perso in un sobborgo del Bronx o della più indecente Amsterdam. Tra urla, ghigni, risolini e scoregge si consuma un vero è proprio inno al corpo (sciolto) nella sua plurima accezione: vino, sesso, piaceri della pancia. Tutto è pelle, pelle umana, pelle di plastica dei divanetti gonfiabili, (simil)pelle animale di quelle pance che lo scenografo Simone Mannino ha disegnato da far indossare ai protagonisti. Pance abnormi, gonfie, come grosse pere/protesi attaccate a corpi d’uomo, stuzzicate con fare erotico come grossi falli da (s)gonfiare o mammelle pronte da succhiare. È davvero mostruoso l’affresco della corte inglese dipinto da Andrea De Rosa. Ma in questo trionfo della pelle, Falstaff non rimane in superficie, scende sottopelle con una certa violenza, quasi disgusto, quasi rigurgito.

Falstaff è uno spettacolo corposo e corpulento, tracotante e opulento, che inonda fino a fagocitarci e spaventarci. Ci imbriglia (come fa con la scenografia), ma non ci innalza (come fa sempre con la scenografia), ci fa sentire sporchi, torbidi, anche un po’ putridi. Riesce quasi a farci sentire il fetore del vino e degli altri fluidi corporei evocati. Conclusa la prima parte dalle fattezze di una trash festa sessantottina, la seconda si fa spoglia ma maestosa, rimbombante a livello sonoro, come se dal corpo fossimo passati nella mente (vuota) dei protagonisti. A trovata registica segue trovata registica, fino ad un finale che pare condurci alla soglia di una candida, eterea e inquietante porta infernale. Forse siamo già morti, come muore Falstaff.

La componente visiva di Falstaff, dunque, schiaccia ogni storia (ma non psicologia) sottesa. La forma surclassa il contenuto. Ma impressionati da cotanta manifestazione di vizi e piaceri, se Sir John Falstaff ha digerito, a noi, pur riuscendo a dormire ancora sogni tranquilli, qualcosa rimane indigesto…

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