I grafici e gli esperti di marketing, che per mestiere disegnano o scelgono le immagini delle copertine dei libri, hanno una grande responsabilità: spesso l’acquisto e la lettura di romanzi sono dettati dalle emozioni che affiorano in noi guardando la foto che fa da sfondo al titolo del libro. È quello che mi è successo con il romanzo Il conto delle minne, di Giuseppina Torregrossa. La figura in copertina non passa di certo inosservata: due cassatelle, due cupolette delicate e rotonde, ricoperte da una candida glassa bianca sulla cui cima svetta una ciliegina candita di un rosso vivido e impertinente. L’immagine è inequivocabile, quelle due piccole opere d’arte dolciaria fanno pensare ai seni morbidi di una donna. Cosa ci si può aspettare quindi da un libro con una copertina (forse un po’) ardita, sfacciata e invitante? Una raccolta di ricette e aneddoti siciliani? Un romanzo al femminile? Una storia d’amore piccante, sensuale e intensa ma anche malinconica e divertente, dolce e amara come la vita? Ebbene sì. Il conto delle minne non tradisce le aspettative del lettore, mantiene le promesse contenute anche nel titolo e racconta l’universo delle donne in modo delicato, spiritoso e triste, un po’ come fa Marcela Serrano (grande scrittrice latino americana contemporanea) nei suoi romanzi, tutti rigorosamente al femminile. Giuseppina Torregrossa che per oltre vent’anni ha lavorato come ginecologa, occupandosi di cura e prevenzione del tumore al seno, mescola e impasta come se fossero gli ingredienti di un dolce, le sue radici, le tradizioni siciliane e la cucina, raccontando e descrivendo una Palermo dai tempi del fascismo agli anni più recenti. La sua scrittura, la storia, le descrizioni di amori forti, di passioni primordiali, incontrollabili e pericolose, ricordano i romanzi dei grandi scrittori latinoamericani come Isabel Allende, Jorge Amado e Gabriel Garcia Marquez.
“Il conto delle minne dev’essere pari: due seni, e due dolcetti per ogni fanciulla”. È questa la raccomandazione che nonna Agata ripete continuamente a sua nipote (che porta il suo stesso nome), il cinque febbraio di ogni anno, giorno in cui si festeggia Sant’Agata, la protettrice di Catania. Quasi come un rito propiziatorio, nonna Agata, devota alla santa, insegna a sua nipote la preparazione di questi dolci raccontandole la storia della giovane martire alla quale, dopo aver rifiutato l’amore del terribile governatore Quinziano, vengono strappati via i seni. Sono proprio questi, i seni, simbolo di fertilità, espressione della femminilità e motivo di orgoglio per noi donne, il filo conduttore di questo romanzo, che comincia con la storia d’amore dei nonni materni e paterni di Agata, per continuare poi con la vita di un’Agata ormai adulta, ginecologa e donna indipendente, che scopre un amore distruttivo e annientatore. Tutte le donne, protagoniste di queste storie che si intrecciano continuamente, sembrano segnate da un destino ineluttabile. Ognuna di loro infatti dovrà fare i conti con le proprie minne e la vita a volte può portare amare sorprese che nemmeno la protezione di Sant’Agata può scongiurare. Malgrado gli eventi dolorosi e la descrizione di un potere sovente forte, animalesco e spietato dell’uomo (inteso come maschio), questo romanzo è un inno alla vita, alla speranza e alla lotta contro la malattia del cuore e del seno e allo stesso tempo un invito a mangiare, a sedersi a tavola per assaporare le minne, dolci perfetti, mezzi pianeti senza orbita ripieni di ricotta, scaglie di cioccolato fondente e canditi. Le fasi della loro preparazione vengono descritte dagli occhi curiosi, innocenti e un po’ impauriti di un’Agata ancora bambina:
Mentre parlava la nonna non smetteva un attimo di lavorare l’impasto, che sotto la pressione delle sue dita abili era diventato una palla morbida ed elastica. [...] Andavo sul balcone dove la nonna teneva al fresco la fascedda di vimini intrecciati che conteneva la ricotta morbida e tremolante, regalo dello zio Vincenzo, il fratello di nonno Sebastiano che di mestiere faceva il lattaio. Il siero colava dai lati del cestino e lasciava una scia appiccicosa sul pavimento. “Agatì, dammi la mano che t’insegno. Devi girare la forchetta in questo modo. Gira, non ti scantare, forte, che diventa liscia liscia.” [...] La decorazione era una fase particolarmente delicata e io percepivo tutta la solennità di quel momento. Le cassatelle dovevano assomigliare a seni veri, altrimenti correvamo il rischio di scontentare la santa che, suscettibile com’era, avrebbe potuto toglierci la sua protezione. La nonna si metteva gli occhiali, apriva le persiane per far entrare più luce, poggiava una ciliegina, si allontanava un poco dal tavolo e controllava che fosse centrata bene; poi si riavvicinava e ne metteva un’altra, fino a quando non aveva decorato quei magnifici dolci. [..] Il racconto lasciava nell’aria odore di santità e ricotta. Sul tavolo della cucina tanti dolcetti tondi, vicini due a due, la ciliegia rossa al centro a imitare il provocante capezzolo Prima di andare via le contavo e ricontavo: una, due, tre, dieci, venti, trentadue, erano sempre in numero pari, due per ogni nostra parente che, grazie a loro, avrebbe potuto godere della protezione di Sant’Agata per tutto l’anno.
Non può mancare un link della ricetta scovato in rete, il blog sembra molto carino e “siciliano”.
Stay hungry
Marina