C’era bisogno di un’altra opinione, un altro sproloquio, un altro post sulle famiglie atipiche? Sicuramente no. Avevate bisogno che io mettessi nero su bianco i miei pensieri in merito? Probabilmente no. Ne avevo bisogno io? Decisamente sì.
Anche perchè l’ultima volta che ho aperto bocca sull’argomento, fu nel corso di un trekking-con-sconosciuti cui fui invitata in extremis dalla mia amica E. (è un periodo triste, poverina, non lasciamola a casa da sola di domenica). Mentre ansimavamo in salita, la conversazione è virata sui diritti civili, alchè ho sfoderato le mie posizioni con il consueto aplomb. Dinanzi a un florilegio di occhiatacce, bisbiglii e gomitate nelle costole da parte della mia amica, ho compreso di essere finita in un’enclave di CL. Gomblotto! Alto tradimento! M’hanno teso una imboscata! Una persona normale avrebbe abbozzato e portato il discorso su altri terreni meno perigliosi, ma io no, perchè a noi comportarci da animali sociali adattabili e ragionevoli ci fa schifo, e pertanto ho insistito, sfidato, provocato, spaccato il capello in 4, in 8, in 16 e infine in 32, alzato la voce, litigato, avvelenato il clima, fiine dell’escursione.
Ma stavolta sono sul mio blog, il dominio lo pago di tasca mia, e posso parlare senza rovinare la gita a nessuno.
Sono consapevole che il tema delle discriminazioni è molto ampio e delicato, e che tutti -inclusa me- abbiamo molto da imparare. Ammetto con vergogna di provare sentimenti discriminatori: ogni giorno combatto una guerra contro i miei demoni, per costringermi a tollerare l’esistenza di ignoranti, superficiali, ingrati, razzisti, arricchiti, esibizionisti, cretini di ogni età, genere, gruppo, etnia e religione. Discrimino quotidianamente le persone pigre, lente, ottuse, prive di humour, estremamente cattoliche, paurose, perchè le percepisco “altre da me”: insomma, le escludo pacificamente dalla mia vita e tolgo loro (e a me stessa) l’opportunità di essere amici miei. Ma spero che mai, anche in uno dei miei raptus di rabbia incontrollabile, mi augurerò che siano loro tolti i principali diritti civili: il voto, la libertà d’espressione, il matrimonio e la genitorialità.
Io una famiglia –eterosessuale, tradizionale, ordinaria– ce l’ho avuta e all’idea di non averla più mi metto a piangere istantaneamente. La famiglia, in tutte le società civili, è il luogo privilegiato in cui una persona ottiene gli strumenti per costruirsi una vita felice. Anche se composta, che so io, da cattolici malvestiti, oppure da vegani che non capiscono le battute, o da ballerini di salsa che leggono i libri di Fabio Volo. E se dovessi ri-sceneggiare la mia infanzia, preferirei di gran lunga ambientarla in seno ad una famiglia atipica, piuttosto che essere senza famiglia. Preferirei avere due mamme piuttosto che zero, o un solo genitore piuttosto che non averne nessuno. Insomma, weird family is better than no family at all.
Famiglie torinesi tradizionali che la vedono come me
E’ per questo che, di tutte le battaglie per i diritti civili, quella che mi sta più a cuore riguarda l’adozione da parte delle coppie gay. Guardando i numeri dei recenti Romapride, Torinopride, Milanopride, sembra esistere sul tema un forte consenso e supporto attivo. Eppure non basta.
Io sono certa che una fetta enorme d’Italia, pur non essendo così ignorante da identificare ancora la popolazione gay con un esercito di pazzeh scellerateh che si mantengono ballando “Cicale” su un cubo, è ancora seduta nella platea del chissà. Brancica nel buio, naviga in acque grigie, costituite solo in minima parte di pregiudizio. Tutto il resto è abitudine, pigrizia, timore, disinformazione, perplessità, tutte riassumibili in una grande domanda: una coppia omosessuale, con la sua scala di valori che si presume sia particolare, è in grado di educare un bambino?
La risposta è: forse sì, forse no. I dubbi sono a mio parere legittimi, vista la difficoltà in sè del mestiere del genitore e il carico emotivo che caratterizza l’adozione, la procrezione assistita e la maternità surrogata. In questo senso, mi sentirei di rassicurare queste persone: a difesa dei minori ci sono le istituzioni, le procedure, la burocrazia. La legge Italiana prevede per i potenziali genitori adottivi eterosessuali un iter lunghissimo, scrupoloso e monitorato, volto a saggiare non solo il livello di motivazione dei candidati, ma anche la loro idoneità mentale e psicologica: chiedete a chi ci è passato, o lo sta vivendo. E’ lo stesso iter cui sarebbero sottoposti gli aspiranti genitori omosessuali, che esattamente come le altre coppie vedrebbero respinta la loro richiesta qualora non sussistessero le condizioni.
I dubbiosi hanno bisogno di rassicurazioni e, per una volta tanto, l’essere un Paese refrattario al cambiamento ci aiuta. Possiamo sfruttare quello che hanno appreso i Paesi pionieri prima di noi, beneficiando della loro letteratura scientifica. In questo articolo sono citati alcuni studi statunitensi, ma ne sono stati condotti altri in Europa altrettanto autorevoli: tutti inducono a pensare che non vi siano sostanziali differenze tra il livello di benessere/adeguatezza dei figli nati da coppie omogenitoriali rispetto a quelli nati da coppie eterogenitoriali. O forse sì, ma possono essere imputabili ai mille motivi per cui una famiglia può essere disfunzionale: le difficoltà economiche, la malattia, l’incomunicabilità, la cattiva sorte, il fatto che a volte -porco il demonio- l’amore finisce. Tutti fattori che, concorderete con me, non hanno nulla a che vedere con l’orientamento sessuale.
Se neppure questo vi rassicura, se neanche la fiducia nelle istituzioni e nella scienza riesce ad abbattere le vostre riserve, forse dovreste sedervi un attimo e farvi delle domande. Dovreste dialogare con la vostra paura, e darle un nome. Forse non siete sinceramente preoccupati che i figli delle coppie gay siano infelici: forse avete paura che questi bambini siano gay a loro volta. In verità temete una epidemia. Forse mentre leggete, v’immaginate che un giorno vostro figlio, all’asilo, possa giocare con un bambino effemminato, e assorbirne gli atteggiamenti.
E se dinanzi questa idea state provando fastidio, ribrezzo, paura, forse è meglio che un figlio non lo facciate proprio.
Ciao caro, ho finito ora il corteo. Vienimi a prendere, sto in piazza Vittorio alle panchine. Mi vedi, tranquillo.
PS Sabato pomeriggio durante il Torino Pride ho avuto la fortuna di camminare e parlare con Stefano Sechi, il ventunenne torinese protagonista di un episodio di omofobia, coraggiosamente giustamente denunciato e balzato agli onori della cronaca: oltre a un occhio nero e 7 giorni di prognosi, ha ricevuto anche il supporto di molti personaggi della politica e dello spettacolo. Se avete un like che ci avanza, potete metterlo alla sua pagina Facebook.