Famiglia caput mundi

Da Albertocapece

Licia Satirico per il Simplicissimus

È la fotografia dell’Urbe, ma potrebbe essere il ritratto di qualsiasi città italiana. Il Censis ha presentato il rapporto “Il valore del sociale” agli Stati Generali del Sociale e della Famiglia di Roma Capitale. Ne emerge il ritratto di una città tenuta insieme da famiglie e da reti di welfare informale nella latitanza di quello istituzionale, ora minacciato di ulteriori tagli dalla spending review de noantri. Sono 106.000 le famiglie a basso reddito, 107.000 i non autosufficienti, 80.000 i disabili, 74.000 i giovani che non studiano e non lavorano, 63.000 i disoccupati di lungo periodo e  29.000 – praticamente una città nella città – le persone con almeno cinquant’anni alla ricerca di un lavoro. Cresce, peraltro, il volontariato informale e organizzato, specie tra i giovani.

La famiglia è il perno della vita quotidiana e spesso vivere in prossimità di parenti e amici fa la differenza. È così che più del cinquanta per cento dei romani con almeno diciotto anni abita con i genitori o vive a un massimo di trenta minuti a piedi da loro. Il sessantasette per cento dei romani ha poi amici stretti a un massimo di trenta minuti a piedi da casa: la famiglia elettiva si affianca a quella naturale, creando un’organizzata rete di resistenza affettiva contro il logorio della vita moderna. A parte si collocano i dati sui collaboratori familiari, esercito silenzioso e fondamentale: nella capitale ci sono 45.000 famiglie con badanti e 20.000 con baby sitter. Altri 265.000 nuclei familiari contano in vario modo su forme di aiuto. Le famiglie romane spendono per badanti e baby sitter 800 milioni di euro l’anno, confermando la tendenza alla privatizzazione dell’assistenza di ogni tipo.

Nell’arco di un solo anno 853.000 famiglie hanno sostenuto spese sanitarie private, 508.000 hanno pagato attività sportive, 91.000 hanno richiesto lezioni private, 424.000 hanno stipulato polizze assicurative private: queste sono cifre da fallimento dello Stato, destinate ad aumentare vertiginosamente dopo l’inserimento del pareggio di bilancio in Costituzione. Spicca anche un altro dato importante: l’aumento di chi una famiglia non ce l’ha, non la vuole o non può permettersela. I single erano 292.000 nel 2001 e ma sono diventati 596.000 nel 2010, con un ritmo di crescita annua del 7,4 per cento. Qualcuno, a questo punto, potrebbe dire che non c’è nulla che già non sapessimo: divisi tra famiglia di supporto e familismo amorale, gli italiani “mammoni” sono stati abbondantemente studiati da sociologi e antropologi, dileggiati a vario titolo dai politici (bamboccioni, sfigati) e presi in giro, mesi fa, da un’infelice sortita del ministro degli Interni.  Invece qualcosa di nuovo – e di peggio – c’è: la crisi spinge i giovani a fissare obiettivi sempre più ridotti rispetto a quelli della generazione precedente. Gli interessi politici sono diventati meno rilevanti e le prospettive professionali evanescenti, in orizzonti di precarietà che si proiettano fino a un’irraggiungibile pensione.

Vivere giorno per giorno diventa l’unica dimensione esistenziale possibile: la precarietà si trasforma in un dato ontologico che induce il giovane a vivere come l’anziano, senza prospettive a lungo termine.  L’affievolimento della passione per la cosa pubblica e l’esasperato individualismo sono due delle conseguenze più evidenti: scippati del futuro, costretti a riparare nell’eterna famiglia per sopravvivere, i giovani vivono nascosti, sfiduciati,  impotenti. Il circolo vizioso è evidente: si taglia il welfare perché tanto c’è la famiglia, fino al momento in cui uscire dalla famiglia è impossibile perché non c’è più il welfare. Qualche professore governativo potrebbe obiettare che il posto fisso è monotono, che bisogna tagliare gli sprechi e garantire la crescita, che il mondo moderno è flessibile, smart, che deve attirare investimenti. Che è colpa degli italiani se non sanno completare gli studi per tempo, lanciarsi nel mondo del lavoro come proiettili, assicurarsi contro le malattie e contro le calamità, comprarsi una casa e farsi una famiglia secondo dettami ortodossi. Questo è un esempio di balla competitiva, da Guinness: per lasciare casa bisogna trovare lavoro, per cambiare casa bisogna avere i mezzi per comprarne una. Il mondo moderno sta ricreando un nuovo feudalesimo: quello, in pompa magna, dei grandi privilegiati e quello, più modesto, delle piccole aggregazioni sociali. Lo Stato è assente in ogni caso, preoccupato dall’efficienza e dal mercato: brutta parola che ricorda la merce, le cose e non le persone. Noi siamo qui, come lo spettro di Banquo, a ricordare che la famiglia “mediterranea”, assistenziale per vocazione e per necessità, non può essere il pretesto per fare scempio dello Stato sociale.


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