Brama, questo Faust (Johannes Zeiler). Brama il sesso femminile, ne brama la forma, ne brama il profumo, ne brama la potenza, la sua peccaminosità. Non esistono donne pure, non esiste l'innocenza, è tutto un rotolarsi tra le spire del male, un male che basta spogliare per perdere le sue forme umane. E questo è proprio il punto: le forme si scompongono già dalla prima, ineluttabile, immagine in un devastante meccanicismo di incastri, di materia malata, ontologicamente priva di un suo ideale, di una sua prevedibilità al di là del suo funzionamento.
Visionario, sconcertante, talvolta anche nauseante, l'uomo che ne viene fuori. L'uomo che sentenzia, filosofa "a mano", con le dita sporche di sangue, di sangue già morto, su dove sia l'anima, sul senso che abbia cercarla. L'anima, Faust la troverà nel desiderio, il desiderio per eccellenza, il desiderio in cui si sprofonda, il desiderio della donna nella splendida Gretchen, Margarete, la perla (Isolda Dychauk). Ma nel trovare ciò che le viscere nascondono così bene, Faust perderà la sua, di anima, nel patto scellerato con un usuraio (Anton Adasinsky) che non è Satana, ma solo l'ultimo erede di una lunghissima tradizione satanica che non esclude neanche il Nick Shadow stravinskiano del Rake's Progress.
Eppure, tutti questi personaggi che reclamano la loro discendenza nelle profondità dell'anima umana, più che nella cultura umanistica occidentale moderna, non li riconosceresti in Marlowe, in Goethe, in Mann e neanche se li cerchi in Gounod e Berlioz: è la storia di Faust che si ripropone, che si rimanifesta, in un'Ottocento di lingua tedesca, con le ombre gotiche di passaggi stretti, di abitazioni anguste, di antri fetidi, di cortili medievali, di boschi sul confine del paese.