Pierluca Nardoni. Sin dalle ultime battute del secolo appena trascorso, la ricerca artistica di Flavio Favelli (1967) si presenta come una delle risposte più interessanti al clima post-concettuale degli anni Novanta. Laddove artisti come Cesare Pietroiusti o Emilio Fantin tentavano di fornire una struttura quanto mai immateriale alle loro brillanti “pensate”, Favelli propone opere dal rinnovato spessore fisico, voluminose e ingombranti, restituendo cittadinanza anche a una manualità preziosa e artigianale. Si tratta di mobili e di altri pezzi di arredamento presentati secondo la pratica del ready made, ossia, in fin dei conti, ricorrendo a una delle opzioni stilistiche della cosiddetta Arte concettuale. Tuttavia, lungi dal recuperare l’anima asettica e mentale del modello duchampiano, Favelli sceglie i suoi oggetti per il loro aspetto singolare e raffinato, spesso persino lezioso, attingendo a piene mani dalle botteghe di antiquariato. Queste “buone cose di pessimo gusto” vengono poi smontate, rimontate e assemblate in maniera tale da comporre assurdi matrimoni, capaci di dar vita ad ambienti spiazzanti nei quali la dimensione quotidiana diviene presto un mondo “altro”.
Tutto è domestico, persino familiare, nell’opera di Favelli, eppure tutto appare subito estraneo, come se lo vivessimo per la prima volta, secondo il copione delle improbabili messe in scena del maestro ideale De Chirico. Anche la collocazione temporale degli assemblages favelliani può definirsi metafisica, nel senso che le loro componenti oggettuali risalgono spesso a un passato imprecisato, definito dal Nostro come inesistente, privato, magicamente sospeso al pari del possibile utilizzo pratico di quelle componenti, sempre sollecitato e immediatamente negato.
Vale la pena a questo punto ricordare il recente orientamento che ha portato Favelli a sperimentare una singolare forma di writing. Si tratta di prelevare scritte “già fatte” da giornali o riviste per dipingerle, opportunamente ingrandite, su alcuni muri significativi della penisola, conservandone però il font originario. Succede, per esempio, che il “Campioni del mondo!” con cui la Gazzetta dello Sport festeggiava una storica vittoria dei mondiali calcistici sia riproposto su un muro di Mirandola, città colpita dal terremoto, al modo di una spensierata esortazione (1982). Ecco dunque emergere un velo di ironia, del resto caratteristica di quella speciale “ars combinatoria” che Favelli condivide con i sogni e le metafisiche.
[1] Uno dei primi studiosi a segnalare tale corrispondenza è stato Maurizio Calvesi. Cfr. M. CALVESI, La Metafisica schiarita, Feltrinelli, Milano, 1982, p. 210.
[2] Per l’omologia tra queste attività oniriche e l’opera di De Chirico si legga R. BARILLI, L’arte contemporanea. Da Cézanne alle ultime tendenze, Feltrinelli, Milano, 1984, pp. 208 e ss.