di Rina Brundu. La prima benedizione l’ha data il grande Roberto Vecchioni, ieri notte, nell’Arena di Verona, in occasione della finalissima di Amici di Maria De Filippi: “Non è vero che Amici è una fabbrica di illusioni. Piuttosto di speranze”. La seconda l’ha confezionata oggi il Corsera prima con un commento di Maria Volpe che concordava con Vecchioni e poi con una critica di un Aldo Grasso nell’occasione neppure troppo “graffiante”, il quale si è limitato a mettere in evidenza il ruolo di rampante entrepreneur ormai acquisito dall’inossidabile moglie di Costanzo.
Tuttavia, se è indubbio che Amici è diventato nel tempo un fenomeno di costume ed una “scuola” formativa di brillanti promesse canterine, è pure vero che sono proprio gli straordinari risultati ottenuti a metterne in luce gli intrinsici “limiti”. Che ci sono! A mio avviso, infatti, cantanti come Annalisa, Alessandra Amoroso, e soprattutto Karima, sono senz’altro tra le migliori voci canore femminili mai ascoltate in Italia. Mi spingo a dire che queste tre ragazze potranno, nel giusto tempo, rivaleggiare e superare i grandi miti nostrani da Anna Maria Mazzini, in arte Mina, in giù. Non vi è nulla di strano in questo, al più si può rilevare soltanto il ritardo con cui si è giunti a questo benefico cambio della guardia in vetta.
Il problema, invece, si pone quando si va a guardare la questione del “commitment”, dell’impegno. Quello vero. È qui a mio modo di vedere che Amici perde totalmente il confronto con le ragioni importanti che hanno fatto vivere la più gloriosa scuola che la canzone italiana abbia mai avuto, ovvero quella cantautorale, e non riesce a nascondere il marchio del “segno dei tempi” impresso in maniera indelebile nel suo dna. Non importano neppure gli sforzi (apprezzabili e per certi versi teneri), di far rivivere quegli antichi fasti portati avanti da quel pur bravo Pierdavide Carone che è stato l’ultimo allievo dell’immenso Lucio Dalla. Il problema è che il talento di Carone non può ovviare al gap culturale (in senso lato) che sta alla base della differenza qualitativa nei due “fenomeni” in discussione.
Il divario culturale a cui faccio riferimento, di fatto, fa equazione con il divario sociale, generazionale che separa quei mondi. Dalla, De Gregori, De André, Guccini, lo stesso Vecchioni erano e sono figli di un’età che aveva ancora una coscienza-di-sé. Poneva l’individuo e la sua capacità di fare al centro del mondo. E l’individuo poteva fare. In molti modi. Anche in modi piuttosto indegni come insegna l’altra faccia della medaglia della “scuola” di quegli anni (vedi stragi terroristiche e quant’altro), ma poteva ancora “fare”. Costruire. Elucubrare. Pensare. Cogitare. Sognare di poter cambiare il mondo. Anche semplicemente cantando una sola canzone. E sono stati tanti coloro che l’hanno fatto. L’hanno fatto gli italiani in maniera egregia nel nostro cortile così come lo hanno fatto i Beatles o i Rolling Stones su dimensione planetaria.
Annalisa, Amoroso, Carone, Karima, Marrone sono invece figli di questa età digitale. Una età che dipende. Dipende dai bits e dai bytes dei portatili, degli ipad, di twitter, dei cellulari. Dipende da un’informazione mordi-e-fuggi-che-non-ci-si-può-fermare e dipende da ritmi adatti a tutto fuorché a favorire una riflessione utile. Utile per chi la fa. E per gli altri. Soprattutto, dipende dalle effettive capacità di numerosi deus-ex-machina a cui viene delegato il compito di “realizzare” le ambizioni di tutti, proprio come è il caso della bravissima signora De Filippi. E dipende dalle possibilità che hanno questi “leader” mediatici di “fare azienda”. Di trasformare l’overall-affaire in un business redditizio per ogni player in gioco e che, con un po’ di savoir-faire, con un po’ di senso del basso-profilo scenico, possa risultare anche simpatico, democristiano nella sua essenza, buono per la parrocchia, per la famiglia, finanche notiziabile per la homepage del giornalismo fondamentalmente “domato” di oggi.
Piuttosto che di un’epoca che ha coscienza di sé e pone l’individuo al centro del suo universo, questi ragazzi sono quindi figli di un’era che ha piena coscienza di tutto-il-resto e sa ciò che è suo. Lo pretende. Per questo, soltanto per questo, se ai figli adottivi della Maria nazionale dobbiamo comunque dire “bravi”, ai loro padri dovremmo fare un monumento. Perché se il talento non è opzione trendy, meno che meno lo è l’estetica e la sostanza dell’impegno sentito. Nonché la sua memoria.
Featured image, Maria De Filippi a Sanremo 2009, fonte Wikipedia.