Continuiamo il nostro viaggio dentro la letteratura americana; o meglio, dentro quel pezzo di letteratura americana approdata nella nostra penisola. Abbiamo già detto di come questa, abbia rappresentato per alcuni intellettuali italiani, negli anni precedenti la Seconda Guerra Mondiale, «una letteratura universale in una lingua sola», il luogo astratto dentro il quale potevano placarsi gli «astratti furori».
Dopo la guerra tutto cambiò rapidamente. Cambiò il mondo, cambiarono gli assetti geo-politici, cambiarono le dinamiche sociali, cambiò la situazione culturale globale, cambiò l'America. Gli Stati Uniti affermarono definitivamente in quegli anni la loro posizione di Paese trainante all’interno del sistema economico-politico mondiale. Erano gli unici veri vincitori della guerra; il nuovo Paese egemone. In breve gli Stati Uniti si proposero come modello culturale per tutto il mondo Occidentale, diffondendo il nuovo, opulento mito dell’American way of life. Un mito diffuso negli anni '50 attraverso il cinema ed i suoi eroi, da Marilyn Monroe a James Dean, il rock’ n’ roll di Elvis Presley, gli edulcorati cartoni animati di Walt Disney. Erano i boccioli della nostra tanto proclamata «società di massa»; gente vestita alla stessa maniera, che mangia in locali del tutto simili tra loro, beve Coca Cola e coltiva le stesse ambizioni, sotto l’influsso di quel grande paese dei sogni che era l’America, ricca e perbene, ordinata e socialmente ben stratificata, con le sue macchine potenti, le sue catene di montaggio, la sua potenza militare, la sua Hollywood, le radio e gli occhiali da sole. Ma dentro questo grande sogno, si celavano enormi fantasmi, si proiettavano ombre gigantesche; quelle dell'imperialismo e della guerra in Corea, del Maccartismo, del conservatorismo puritano, del nazionalismo esasperato.
Di fronte a quel tipo di società, sempre più chiusa ed arroccata, che tentava di uniformare ogni forma di manifestazione culturale, i nuovi intellettuali reagirono con ferocia; accettarono la sfida, accettarono il nuovo ruolo subalterno assegnato alla letteratura, fecero proprio il tentativo di emarginazione subito e lo ribaltarono con furia, portando agli occhi del lettore i problemi e gli aspetti che la cultura del sistema tendeva a nascondere, parlando del problema razziale, della differenza tra nord e sud, della violenza e degli orrori della guerra. Erano i maestri della Lost generation come Hemingway e Faulkner, ma anche Salinger, Mailer, Wolfe, Syron.
In questa lotta contro il conformismo dilagante un ruolo di primo piano ebbero le generazioni a cavallo tra gli anni '50 e '60. In campo letterario una generazione di giovani scrittori spiccò forse più degli altri; quella che provocatoriamente si autodefinì «Beat». Una generazione di disincantati vagabondi figli d’America, viaggiatori e sognatori ad occhi aperti, pacifisti disinibiti e funambolici, che rifiutavano il marciume della società, del denaro, dei falsi compromessi, delle ipocrisie, per coltivare un sogno più grande, tanto grande da sovrastarli, da spingerli come schegge impazzite tra droghe e locali jazz, tra religioni orientali e viaggi in autostop, verso il ricovero salvifico dell’arte e della scrittura, verso lunghi racconti gridati e pronunciati tutti d’un fiato, verso poesie infinite, verso la ricerca di semplice libertà, pura ed inafferrabile. I padri di questa generazione di scrittori furono Jack Kerouac ed Allen Ginsberg, William Burroughs e Gregory Corso. La data di consacrazione fu il 1957 quando, dopo lunghe pressioni di Malcolm Cowley, il grande capolavoro di Jack Kerouac, On the road,fu finalmente pubblicato.
All'alternativo stile dei «Beat» sin dai suoi primi anni di carriera si consacrò una delle più stravaganti figure intellettuali italiane di quegli anni. Una critica, traduttrice sui generis, brillante e geniale; Fernanda Pivano. Allieva di Pavese si laureò in Lettere con una tesi proprio sul Moby Dick di Herman Melville. Da lì il suo rapporto con la letteratura americana sarà legato per sempre a doppia mandata. La sua prima grande opera editoriale fu proprio la tanto amata e disprezzata Antologia di Spoon River, il controverso capolavoro di Edgar Lee Master, più volte censurato. Tradusse anche Hemingway e Fitzgerald, ma quelli che per sempre rimasero i «suoi americani» furono proprio i beatnik; i beoni e disincantati sognatori, figli di un'America madre e puttana, adorata e detestata. Per lei, pacifista e quasi anarchica, libera pensatrice ed eterna sognatrice, lo stile di vita «beat», la loro concezione di letteratura, furono una folgorazione.
La Pivano si batté con successo per portare le loro opere in Italia, fondò, riviste, pubblicò interviste, invitò Kerouac ai talk show, mentre ovunque, attorno a loro, si ostentava indifferenza e quasi disprezzo. Nanda Pivano seppe vedere quello che gli altri non vedevano, seppe gettarsi subito con foga su quella brezza dal sapore rivoluzionario che un decennio dopo dilagò in tutto il mondo, sostenuta dagli Hippies e dal Rock' n' Roll. Quando tutti iniziarono a leggere On the Road, quando tuttisi sbracciarono per montare finalmente su quel carro, Nanda fece gentilmente posto; lei era già lì da un pezzo. Nanda vide quello che gli altri non volevano vedere; che il mondo stava cambiando e con lui anche la nostra idea di letteratura.
La sua opera di traduttrice continuò fino alla sua morte. A lei dobbiamo le tempestive traduzioni di autori come Bret Easton Ellis, David Foster Wallace, Chuck Palahniuk, e Jay McInerney. Ed allora è bello citare qui una celebre espressione, che proprio quest’ultimo scrisse in italiano sul «New Yorker» e che è riportata sulla copertina di Viaggio Americano, e dire anche noi di cuore «Grazie Nanda».