Dal festival di Cannes 2013, la recensione del film La Grande Bellezza.
Commovente, spiazzante, tagliente, ironico, sprezzante, cinico, visionario. Questi ed altri mille aggettivi sono accostabili a La grande bellezza di Paolo Sorrentino. Un film monumentale che potrebbe davvero segnare un’era per il cinema italiano. Perché oltre a consacrare definitivamente e a livello internazionale il talento limpido del suo autore, a consegnarci la sua definitiva maturità e piena coscienza dei suoi mezzi, ed oltre ad offrirci uno spaccato, trasfigurato sì ma fortemente ancorato al reale, dell’attuale decadenza morale del nostro paese, scardina anche l’immagine convenzionale che si ha del nostro cinema contemporaneo, incapace di rialzarsi, di inventare e di far tesoro delle glorie del passato.
Quello che è stato definito aprioristicamente “La dolce vita del 2000” è un’opera che non si pone limiti né confini. L’omaggio a Fellini e al suo capolavoro del 1960 appare evidente, per l’argomento, per i luoghi che fanno da sfondo alla storia, per la sua chiara struttura narrativa episodica, per l’infinità di personaggi che mette in campo. Ma La grande bellezza ha una sua anima ben precisa. Quadro barocco della Roma di oggi, emblema figurativo di tutto il paese e della sua etica allo sfascio, del suo degrado, del suo vuoto, il film di Sorrentino è in realtà soprattutto una riflessione metanarrativa sull’arte, sulla costante ricerca d’ispirazione, sulla capacità di scegliere cosa raccontare e a chi raccontarlo. Una riflessione rinchiusa nel suo personaggio principale, Jep Gambardella, un sessantenne scrittore che si è fermato al suo primo romanzo e che si è perso nel tunnel della mondanità romana. Una vita notturna fatta di musica, feste folli, ragazze disinibite, di medio-borghesi alle prese con i vizi di un’esistenza monotona e vuota. Nella loro frenesia, nei loro sfoghi notturni, nella triste giostra a cui partecipano, Sorrentino ripone uno dei due fattori contrapposti del film, quello del divertimento effimero, dell’inconsapevole insoddisfazione, della volgarità che ha coinvolto quasi tutta la società. A contrapporsi ad essa, l’immensa bellezza della Città Eterna, resa dal regista napoletano in tutta la sua maestosità e potenza, riportata sullo schermo da una macchina da presa che segue la sinuosità delle sue forme architettoniche, che scova i dettagli nascosti, che fluttua su di essa senza mai toccarla, come frenata, intimorita, dal suo fascino senza pari. E così tutto il film vive su questa contrapposizione, in bilico tra profano e sacro, tra dissoluzione e poesia, tra una’eccessiva sfrontatezza e una riflessiva riservatezza. In equilibrio tra questi due mondi si pone Jep Gambardella, di dovere già nell’albo degli indimenticabili personaggi della storia del nostro cinema. Un uomo costretto ad un certo momento della sua vita a fare i conti con il proprio passato, le occasione mancate, gli impegni non rispettati, i rimorsi, e con un futuro che non è stato capace di costruirsi ma solo di immaginare, di sognare la mattina sul letto, ad occhi aperti, dopo una notte di delirio e prima di cadere nel sonno. L’ispirazione, la molla per rimettere in riga la sua vita, la bellezza che sta tanto cercando per uscire dal letargo, ce l’ha sempre avuta sotto gli occhi, ma forse non ha mai avuto il coraggio di lasciarsi trasportare da essa.
La grande bellezza nella sua apparenza di parco giochi kitsch e decadente è in realtà un film dal ritmo altissimo che scava nelle emozioni più pure. Sorrentino sfoga la sua visionarietà in ogni singola inquadratura, spiazza lo spettatore con continue ed infinite trovate, disegna personaggi indelebili. Il regista de Il divo firma un’opera che è la summa della sua poetica, forse lasciandosi prendere la mano in qualche momento, ma realizzando in fondo un film che nella sua stessa ambizione trova il suo significato ultimo: rappresentare la bellezza della vita, per comprenderla e addirittura superarla con la purezza e l’incontrollabilità dei sogni. Altissimo cinema. Servillo immenso.
di Antonio Valerio Spera