In concorso a Venezia 70, Sacro GRA segna il ritorno dietro la macchina da presa di uno dei documentaristi più interessanti del panorama cinematografico italiano. Il film racconta diverse storie che ruotano intorno al Grande Raccordo Anulare della capitale, che appare sullo schermo come un luogo astratto, quasi favolistico, dove troviamo tra i tanti un pescatore di anguille, un palmologo, un nobile, un principe che vive in un castello.
Com’è nata l’idea di questo film?
In fondo è un film che mi è stato quasi commissionato. Inizialmente mi è stato difficile innamorami di questo luogo, del Grande Raccordo Anulare. Poi con pazienza, con ostinazione, sono riuscito a guardarlo non solo come una striscia d’asfalto, ma anche come il luogo di tante storie possibili, di tanti futuri possibili. E io ho avuto il privilegio di percorrere questo spazio.
Quindi come hai iniziato a lavorare su questo luogo?
Non avevo in mente nulla all’inizio. Poi Renato Nicolini, a cui il film è dedicato, mi ha detto di prendere la macchina e di fare un giro sul Raccordo con lui. Così ho deciso di filmare un giro intero sul GRA e il risultato di questo materiale video è stato Tanti futuri possibili di Renato Nicolini appunto, che è stato presentato al Festival di Roma. Da quell’esperienza ho capito che il Grande Raccordo Anulare poteva essere un luogo d’astrazione. E Nicolini mi ha detto: Ora devi aprire questo spazio e farlo diventare una retta infinita.
Come hai scelto le storie e i personaggi da raccontare?
Ho passato mesi a capire quali fossero le storie giuste da raccontare. Ho passato molto tempo con tante persone, con alcune in modo continuativo, altre invece le ho lasciato da parte per un po’ e poi le ho riprese. Prendiamo ad esempio la storia del palmologo. Ho passato tantissimo tempo con lui, ma senza mai usare la macchina da presa. Ho scoperto piano piano la sua identità, l’ho conosciuta. E poi un giorno, quando mi ha detto che le sue palme erano state attaccate dai punteruoli, mi trovavo da lui e c’era un tramonto bellissimo. Lì mi sono detto che dovevo girare. E quei venti minuti di riprese sono diventate un condensato di tutta la nostra esperienza insieme. D’altronde io riesco a capire dove mettere la macchina da presa solo dopo che ho passato tanto tempo insieme alle persone. La forza del documentario sta nell’ascoltare e solo dopo aver ascoltato, filmare.
Cosa accomuna tutti i personaggi del tuo film?
Il più delle volte i film si capiscono soltanto quando li finisci. E solo ieri ho capito che ciò che accomuna i miei personaggi è il loro legame profondo col passato. Nel film non ci sono storie di giovani, anche perché quelli che volevo inserire nel film non sembravano molto disposti a farsi filmare. I protagonisti di Sacro GRA hanno in comune una fortissima identità. E con loro non ho avuto bisogno di fare domande, il loro passato è venuto fuori da solo. La crisi di questo paese no è tanto economica, ma è una crisi di mancanza d’identità. E così come credo che non si possa raccontare la crisi economica filmando la crisi stessa ma solo filmando “l’anticrisi”, il suo opposto, allo stesso modo per rendere l’idea di una mancanza d’identità bisogna raccontare sullo schermo chi l’identità invece ce l’ha.
Nel film Roma appare come un luogo astratto, era dunque questo il tuo obiettivo?
Inizialmente pensavo ad un viaggio con una mappatura ben precisa. Ma poi questa mappatura l’ho mandata all’aria, e ho deciso che i luoghi non dovessero essere più riconoscibili. Volevo che anche il romano più puro non li riconoscesse. Anche se in realtà una zona di Roma la cito esplicitamente, e mi riferisco a Boccea. Ho voluto lasciare questo riferimento concreto perché comunque non volevo arrivare ad un’astrazione pura.
Guardando il tuo film viene in mente lo stile documentaristico di Wiseman. Hai mai pensato a lui durante le riprese?
Amo molto Wiseman, è uno dei maggiori documentaristi americani, niente a che vedere con Michael Moore, che detesto perché secondo me sta uccidendo il documentario americano. Comunque non credo di aver mai pensato a Wiseman, anche perché lui lavora in modo diverso. Lui gira in maniera molto libera e non gira molto. Più ce altro impiega molto tempo al montaggio, dove costruisce il film. Mentre io metto insieme tantissimo materiale – per questo film ben 200 ore – e sto poco al montaggio. Addirittura io spesso monto direttamente in macchina: grazie al digitale a volte cancello subito delle sequenze che so che non mi serviranno.
Il tuo film descrive una Roma marginale, che non è quella raccontata ad esempio da Sorrentino in La grande bellezza…
Il film di Sorrentino vive di una forza centripeta nei confronti di Roma, il mio invece all’opposto di una forza centrifuga. Il mio film va all’esterno, quello di Sorrentino all’interno.
Rimpiangi di non esser riuscito ad inserire alcune storie nel film?
Mi dispiace non avere inserito nessuna storia di un giovane e anche di nessuna donna protagonista. Fossi stato io il produttore del film, avrei girato ancora a lungo. Ma ho già avuto un grande privilegio a girare per tre anni.
Cosa pensa di Errol Morris, l’altro documentarista in concorso a Venezia 70?
Quello di Morris è cinema puro. Amo i suoi film ancor più di quelli di Wiseman. E’ un’ispirazione per me.
foto Federica De Masi © Oggialcinema.net
di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net