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Festival di Venezia – Intervista a Daniele Gaglianone

Creato il 04 settembre 2013 da Oggialcinemanet @oggialcinema
Uno dei film più interessanti presentati a Venezia 70, La mia classe di Daniele Gaglianone è un esperimento unico nel panorama cinematografico italiano attuale. L’opera, che mette in scena il rapporto tra un professore di italiano (Valerio Mastandrea) e i suoi studenti immigrati, si presenta in maniera stratificata su più livelli, in bilico costante tra documentario, finzione e metacinema e proponendo un discorso profondo sull’integrazione e sulle contraddizioni della società italiana contemporanea.Daniele Gaglianone, com’è nato questo esperimento, se possiamo definirlo così? Il progetto è nato da un’idea di Claudia Russo e Gino Clemente che, per motivi anche personali, hanno pensato ad una cosa molto semplice: costruire una situazione in cui una classe di studenti stranieri autentici fosse accostata ad un professore interpretato da un attore professionista. Da lì, abbiamo pensato subito a Valerio Mastandrea, che è un attore che ha un dono non scontato, perché è una persona da tutti percepita come attore ma anche percepita come una persona comune che puoi tranquillamente incontrare per strada o al bar. Successivamente, abbiamo pensato ad una drammaturgia in cui le lezioni di questo professore seguissero un canovaccio e che non fossero scritte in modo preciso. L’idea era quella di suggerire ogni volta un argomento attorno al quale dovevano girare le lezioni, tenendo presente anche gli studenti, i loro pensieri, le loro esperienze, le loro vite, e poi di immaginarci degli sviluppi ipotetici plausibili partendo dalle loro storie vere.Ma come si è arrivati a questa struttura in cui il confine tra la realtà e finzione quasi scompare? Due settimane prima dell’inizio delle riprese, quello che avevamo immaginato per la storia del film, è successo davvero, e ci sono stati dei veri problemi con i ragazzi, problemi legati ai loro documenti. E allora siamo entrati in crisi. Io ad esempio ho pensato seriamente di lasciar perdere anche perché il contesto che si era venuto a creare ci chiedeva di fare delle scelte contro le quali noi stavamo facendo il film e che noi, come cittadini, non condividiamo. Potevamo fare anche come si fa solitamente nel cinema, mandando via alcuni ragazzi e prendendone altri, ma non lo voleva nessuno. Quindi siamo arrivati all’ipotesi che poi abbiamo seguito, e cioè quella di metterci in una prospettiva completamente nuova, anomala e decidere di fare il film mettendo una pezza dal punto di vista burocratico – e per questo devo ringraziare molto i ragazzi della produzione, che hanno fatto i salti mortali – e strutturandolo in modo che Valerio fosse il professore ma fosse anche Valerio e che noi, della troupe, fossimo noi. E abbiamo immaginato: se i problemi che ci sono stati prima delle riprese fossero arrivati durante le riprese stesse? E se noi ci fossimo comportati in un altro modo, avessimo seguito la legalità? Così il set diventa sullo schermo un’allegoria della società. Ci siamo calati completamente nella contraddizione, ci siamo ficcati dentro questa sabbia mobile, rischiando anche di non uscirne più.Oltre a questo parallelismo tra il set e la società, guardando il film si pensa anche ad un parallelismo tra la lingua parlata dagli studenti e il linguaggio cinematografico, a metà tra documentario e finzione… Il film è molto semplice, ma dietro ci sono tanti ragionamenti. Era un film molto scivoloso, bastava davvero poco, sia in fase di riprese che in fase di montaggio, per far saltare questo meccanismo molto davvero fragile. E credo che alla fine, sì, diventa anche una riflessione sul linguaggio cinematografico, perché il film doveva necessariamente confrontarsi anche con questa dimensione, altrimenti non avrebbe funzionato.E’ quindi anche un film sul cinema? Non è un film che parla di noi che facciamo il cinema. Noi sul set diventiamo una metafora di come è il nostro rapporto con la società, di che cosa siamo noi dentro questo mondo, di come ci comportiamo in situazioni difficili che ci mettono in crisi. L’obiettivo del film è mettere lo spettatore nella condizione di smettere di chiedersi cos’è finzione e cos’è realtà. C’è una riflessione sul cinema, ma è finalizzata anch’essa ad una riflessione più generale. Con questo, però, non volevo dare un messaggio. Volevo fare un film che mettesse lo spettatore nella condizione di sentirsi chiamato a una prospettiva differente. La struttura del film, con finzione e realtà sempre a darsi il cambio, e con l’esplicitazione della messa in scena, con regista e troupe in campo, in certi momenti ricorda un certo cinema di Godard. Hai mai pensato a questo, mentre giravi? La mia classe è un film di liberazione per me, perché non ho mai pensato al cinema mentre lo realizzavo, non ho mai pensato a riferimenti cinematografici, ad altri autori, ad altri film. Mi ci sono approcciato come un ventiduenne che fa un cortometraggio con gli amici. Ammetto però che in un momento a Godard ci ho pensato, che è quello della canzone. Ho pensato a Sympathy for the Devil, in cui riprende i Rolling Stones mentre suonano con un carrello che fa avanti e indietro. E quella scena del film l’ho girato proprio così.In che modo hai lavorato con Valerio Mastandrea? Lui solitamente è un attore che entra molto nel personaggio e qui invece doveva continuamente entrare ed uscire dal suo ruolo Credo che questo film gli abbia consentito di entrare in un meccanismo opposto. Di solito l’attore diventa il personaggio e poi lo fa interagire con ciò che è lui realmente, mentre penso che qui Valerio sia partito dal personaggio per tornare a se stesso. In questo film è una cosa che è successa a tutti, anche a me come regista. Se adesso mi sono riconciliato con il mio essere regista, forse è proprio perché sono tornato a me come persona.di Antonio Valerio Spera per Oggialcinema.net

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