Fiammetta Giugni, HORTUS PROTERVIO, Cfr 2011
Nel caso della poesia di Fiammetta Giugni siamo nel territorio della difesa ad oltranza, della difesa ad essere. Essere fratelli dei fiori, portare la bellezza e la lotta per apparire “perfectissimi” nel breve tempo che ci e’ concesso.
Molto assomigliamo agli abitanti di questo giardino:
il fico è sempre ultimo a infogliarsi
e mi si attarda
sembra meditare
e soffrire
e’ un Giobbe piegato
sotto gli sguardi bianchi
acuti delle cime
p.19
…
c’e’ del buono lo sento
nell’ordine fitto
del glicine fratto di lilla
e rifratto di bianco
c’e’ la ripetizione ossessione
di regola quasi preghiera
p.20
E dunque la bellezza non è il frutto di un’ apparizione del Nulla. La bellezza è il dono di un sacrificio, dell’accettazione a morire:
ho imparato in tante veglie solitarie
(e sugli scritti degli amici morti
e semprevivi) che Uno si é fatto uomo proprio
perchè a Giobbe voleva somigliare
verrà – dico al mio fico -
il tempo dei tuoi frutti
i più dolci dell’hortus
le grosse gocce del tuo sangue
avranno la mia riconoscenza
p.19
Nella descrizione di questo sbocciare e apparire giornaliero, non si coglie la superficie, ma “il derma, il suo sottile”. Siamo quindi, nella sostanza di uno stilnovismo declinato, modernamente, in simbolismo materico, dove la sostanza brutale si adombra – per non spaventare, per arginare il dolore – di sostanza umbratile.
“Chiaro e Scuro/così innocenti e intatti”, perchè “fuori e’ rimasto/quel piccolo grammo di strazio/che avrebbe sbilanciato il tutto”, p.31.
La cura verso le parole è dunque la stessa della dama verso il suo bestiario naturale, e non è una dama assisa al centro del labirinto in compagnia dell’unicorno e con la veste ricamata. E’ la donna intenta a coltivare e proteggere il frutto del suo ventre, nello sfondo di una natura che evolve osservando il trascolorare della giornata e delle stagioni, come fa il contadino/naso di cane:
questo è un giorno compiuto
la terra e’ tornata leggera
un fuoco ha bruciato
le foglie appassite
p.33
resto
seduta qui fuori
fino all’ultima luce
che inonda di chiaro
il corso paziente degli occhi…
p.34
Tutto quest’ordine spaventosamente fragile, è innestato nel lavoro da fare della poesia e dell’amore. Il compito è di cogliere i segni naturali che legano uomini e cose, il pianeta e le stelle, le radici e il cielo. E’ un libro, questo, che si inserisce nel filone degli innesti tra parole e segni, scrittura come alfabeto naturale, tramite tra la parola discosta delle cose e la parola drammaticamente dislocata della razza degli uomini.
Quale il mezzo?: il sacrificio degli esseri che per resurrezione e vita devono prima morire, attraversare la terra e giungere alla luce della stessa stella.
Sebastiano Aglieco
***
se ti affacciassi (ancora)
alle nostre costellazioni
vedresti (dall’alto)
come si aggruma nel piccolo
il nostro stare
guardale, le contrade,
come segni collettivi
ma pensale come pene individuali
- per ogni principio
di inclusione – esclusione
che ci portiamo nel cuore
- per tutto quello che è diverso
ed uguale fra la siepe dell’orto
e la fontana
(e per ogni chioccolìo una lingua
…più dura…men dura )
non sappiamo se questo disegno
ti piace
se è nato da un caso beato
o se fu la tua unghia di artefice
a graffiare la terra
ma per certi rumori feriali
e per certi silenzi di festa
che ancora resistono
tu almeno
non sottrarti al guardare
p.37
***
io voglio gustarlo nel suono
(chiuso a derimersi in bocca)
il nome di questo solstizio invernale
sento il suo rischio
e il sapore
muschiato di notte
e peso la forza
che stringe fino al colmo apparente
del buio più fondo
io devo subirlo alla lingua
il vagito di luce
che spinge
p. 38
***
all’acme di questo solstizio
vorrei una parola capace
di colpire la notte
nel suo centro di gelo
una saetta di fuoco
che disegni una stella
nel tuo fondo più buio
al discrimine
esatto del tuo volgerti in luce
e scoprirla
con gli occhi dalla Terra.
p.39
***
nient’altro voglio
oggi che cadere
dentro una coclea
calda di sangue e di affabulazione
sciogliere il ricordo
e risalire il pulsare delle vene
dalle quali discendo
potrei cambiare gli argomenti
le attitudini i mezzi
i percorsi
potrei variare
i simboli
purchè il corpo resti
p.41
***
manca sempre qualcosa
al tutto che ho tolto
ma lo compensa il salto
con tutto quel che ho avuto
e quando sono con lui
dall’anfratto stretto
sullo strapiombo
posso beata guardare
l’orografia della mia avventura
mi espongo al sublime
senza alcuna paura
e mi riconosco:
stesso destino di un dettato geologico
per grazia di coerenza
fra il principio e la fine
p.57