29 giugno 2013 Lascia un commento
Quello della sicurezza me l’ha spiegata bene.
Gli addetti ai bagagli possono ignorare una valigia ticchettante. Quello della sicurezza, lui chiamava gli addetti ai bagagli Lanciatori. Le bombe moderne non ticchettano. Ma una valigia che vibra, gli addetti ai bagagli, i Lanciatori, ecco che devono chiamare la polizia.
Com’è che sono finito a vivere con Tyler è per via di questa politica adottata da quasi tutte le compagnie aeree sui bagagli che vibrano.
Nel mio viaggio di ritorno da Dulles avevo tutto quanto in quella sola borsa. Quando viaggi parecchio impari a imbagagliare ogni volta la stessa roba. Sei camicie bianche.
Due calzoni neri. Il minimissimo indispensabile alla sopravvivenza.
Sveglietta da viaggio.
Rasoio elettrico a batterie ricaricabili.
Spazzolino da denti.
Sei paia di mutande.
Sei paia di calze nere.
Salta fuori, alla partenza da Dulles, che la mia valigia vibrava, secondo quello della sicurezza, così la polizia l’ha tirata giù. C’era tutto in quella borsa. Il nécessaire per le mie lenti a contatto. Una cravatta rossa a strisce blu. Una cravatta blu a strisce rosse. Queste sono righe regimental, non righe da club. E una camicia tutta rossa.
Una volta tenevo una lista di tutte queste cose appesa alla porta della mia stanza, a casa.
Casa mia era un appartamento al quindicesimo piano di un grattacielo, una sorta di archivio per vedove e giovani professionisti. Il pieghevole promozionale garantiva due spanne di cemento tra me e qualunque stereo o televisore a tutto volume al di là dei miei pavimenti, soffitti e muri. Due spanne di cemento e aria condizionata, cosicché non
potevi aprire le finestre, e con tanto di parquet d’acero e interruttori a intensità variabile, fino all’ultimo centimetro cubo a tenuta d’aria puzzava dell’ultimo pasto che ti eri cucinato o dell’ultima andata al bagno.
Sì, e c’erano piani in massello e faretti incassati a basso voltaggio.
Comunque due spanne di cemento sono importanti quando la tua vicina di casa lascia scaricare le batterie del suo apparecchio acustico e deve mettere al massimo il volume del televisore per seguire i suoi giochi a premi. O quando una vulcanica fiammata di gas incandescente piena dei detriti che una volta erano il tuo arredamento e i tuoi effetti personali esplode dalle vetrate di casa tua lasciando il tuo miniappartamento, solo il tuo, ridotto a uno squarcio annerito nella facciata del grattacielo.
Tutto, incluso il tuo servizio di piatti di vetro verdi soffiati a mano con tutte quelle bollicine piccole piccole e le imperfezioni, i granellini di sabbia, a riprova d’essere l’opera degli onesti, semplici, infaticabili artigiani indigeni di chissà dove, be’, tutti questi piatti sbriciolati dall’esplosione. Immaginatevi le tende delle vetrate che volano fuori a
consumarsi nel fuoco spinto dal vento caldo.
Quindici piani al di sopra della città e questa roba che scende come lava, cenere e lapilli a spargersi su tutte le macchine parcheggiate.
Io, mentre me ne volo a ovest, addormentato a Mach 0,83 o 455 miglia orarie, velocità relativa, con gli artificieri dell’Fbi che esaminano la mia valigia su una pista deserta a Dulles. Nove volte su dieci, dice quello della sicurezza, la vibrazione è un rasoio elettrico. Questo è il mio rasoio elettrico a batterie ricaricabili. Un’altra volta è un dildo a
vibrare.
Questo me lo ha detto il tizio della sicurezza. Questo è stato alla mia destinazione, senza la valigia, quando stavo per prendere un taxi e tornare a casa a trovare le mie lenzuola di flanella a brandelli sul marciapiede.
Si immagini, dice quello della sicurezza, di andare a raccontare a una passeggera all’arrivo che il suo bagaglio è rimasto sulla East Coast per via di un dildo. E certe volte capita con i passeggeri maschi. È politica della compagnia aerea non entrare nel merito specifico della proprietà nel caso di un dildo. Si usa l’articolo indefinito.
Un dildo.
Mai il suo dildo.
Che a nessuno scappi mai di dire che la signora è venuta a bordo con un dildo.
Un dildo è entrato in funzione dando origine a una situazione di emergenza che ha richiesto lo scarico del suo bagaglio.
Pioveva a Stapleton quando mi sono svegliato per la mia coincidenza.
Pioveva quando mi sono svegliato al momento dell’atterraggio a casa.
Un annuncio ci ha invitati a cogliere l’occasione per controllare nei pressi del nostro posto a sedere di non aver dimenticato qualcuno degli effetti personali. Poi l’annuncio ha fatto il mio nome. Ero gentilmente pregato di parlare con un rappresentante della compagnia aerea che mi attendeva al cancello.
Ho portato indietro il mio orologio di tre ore ed era ancora mezzanotte passata.
C’era il rappresentante della compagnia aerea al cancello e c’era quello della sicurezza a dirmi, ah, il suo rasoio elettrico ha bloccato il suo bagaglio a Dulles. Quello della sicurezza chiamava gli addetti ai bagagli Lanciatori. Poi li ha chiamati Rampanti. Per farmi sapere che sarebbe potuta andare anche peggio, mi ha detto che almeno non era un dildo. Poi, forse perché io sono maschio e lui è maschio ed è l’una di notte, magari per farmi ridere, mi ha detto che quelli del mestiere chiamano le assistenti di volo Cameriere Spaziali. O Materassi ad Aria. Dava l’impressione di indossare una divisa da pilota, camicia bianca con piccole spalline e cravatta blu. Il mio bagaglio era a posto, ha detto, e sarebbe arrivato il giorno dopo.
L’uomo della sicurezza mi ha chiesto nome e indirizzo e recapito telefonico, poi mi ha chiesto che differenza c’è tra un preservativo e un aereo.
«In un preservativo ci entra una sola testa di cazzo» ha detto.
Ho preso un taxi per tornare a casa usando i miei ultimi dieci dollari.
Anche la polizia aveva fatto un sacco di domande.
Il mio rasoio elettrico, che non era una bomba, era ancora a tre fusi orari da me.
Qualcosa che era una bomba, una grossa bomba, aveva distrutto i miei originali tavolini Njurunda a forma di yin color verde ramarro e yang arancione, da incastrare insieme per formare un cerchio. Ora erano un cumulo di schegge.
Il mio salotto Haparanda con le fodere arancione, firmato da Erika Pekkari, era un ammasso di immondizie.
E io non ero il solo schiavo del mio istinto di nidificazione. Gente che conosco, che una volta andava a sedersi in bagno con una rivista pornografica, adesso va a sedersi in bagno con un catalogo dell’Ikea.
Abbiamo tutti la stessa poltrona Johanneshov con lo stesso disegno Strinne a strisce verdi. La mia è precipitata per quindici piani, bruciando, dentro una fontana.
Abbiamo tutti le stesse lampade Rislampa/Har costruite con filo di ferro e carta ecologica, non sbiancata. Le mie sono coriandoli.
Tutte quelle sedute in bagno.
Il servizio di posate Alle. Acciaio inossidabile. A prova di lavastoviglie.
L’orologio Vild da anticamera, di acciaio zincato, oh, non avevo potuto farne a meno.
La consolle a ripiani Klipsk, oh, sì.
Le cappelliere Hemlig. Sì.
Tutta roba che luccicava disseminata nella strada sotto il mio grattacielo.
La mia parure coordinata Mommala. Disegnata da Tomas Harila e disponibile in quanto segue:
Violetto.
Fucsia.
Cobalto.
Ebano.
Antracite.
Bianco latte o vinaccia.
Una vita intera per comprare questa roba.
I miei tavoli Kalix dallo smalto fine per le occasioni.
I miei tavoli da nido.
Compri mobili. Dici a te stesso, questo è il divano della mia vita. Compri il divano, poi per un paio d’anni sei soddisfatto al pensiero che, dovesse andare tutto storto, almeno hai risolto il problema divano.
Poi il giusto servizio di piatti. Poi il letto perfetto. Le tende. Il tappeto.
Poi sei intrappolato nel tuo bel nido e le cose che una volta possedevi, ora possiedono te.
Finché sono arrivato a casa dall’aeroporto.
Il portiere sbuca dalle ombre per dire che c’è stato un incidente. La polizia è stata qui e ha fatto un sacco di domande.
La polizia pensa che possa essere stato il gas. Forse si è spenta la fiammella pilota oppure un fornello è rimasto aperto e il gas è arrivato al soffitto, e il gas ha riempito l’appartamento da cima a fondo, stanza dopo stanza. Quando tutte le stanze sono state piene, è partito il compressore in fondo al frigorifero.
Deflagrazione.
Le vetrate nei telai di alluminio sono esplose e via in fiamme i divani e le lampade e i piatti e le lenzuola, via gli annuari del liceo e i diplomi e il telefono. Tutto sparato dal quindicesimo piano in una sorta di esplosione solare.
Oh, non il mio frigorifero. Avevo collezionato ripiani su ripiani di senapi, alcune macinate nel mortaio, alcune in stile pub inglese. C’erano condimenti per insalata senza grassi in quattordici sapori diversi e sette tipi di capperi.
Lo so, lo so, una casa piena di condimenti e nessun cibo vero.
Il portiere si è soffiato il naso e qualcosa è finito nel suo fazzoletto con lo schiocco sano di una presa sicura nel guantone del ricevitore.
Si poteva salire al quindicesimo piano, ha detto il portiere, ma nessuno poteva entrare nell’appartamento. Ordini della polizia. La polizia aveva chiesto se avevo un’ex fidanzata che me l’aveva giurata tanto da farmi una cosa del genere o se mi ero procurato qualche nemico che avesse accesso alla dinamite.
«Non valeva la pena salire» ha detto il portiere. «È rimasto solo il guscio di cemento.»
La polizia non aveva escluso il dolo. Nessuno aveva sentito odore di gas. Il portiere solleva un sopracciglio. Questo passava il suo tempo a filare le cameriere e le infermiere che lavoravano negli appartamenti grandi dell’ultimo piano e aspettava seduto nelle poltrone dell’atrio le loro discese in ascensore dopo il lavoro. Tre anni che vivevo lì e tutte le sere trovavo il portiere seduto a leggere i suoi Ellery Queen mentre io rigiravo armi e bagagli per aprire la porta d’ingresso.
Il portiere solleva un sopracciglio e dice che certa gente se ne parte per un lungo viaggio e lascia in casa una candela, un cero lungo lungo, acceso, in mezzo a una pozza di benzina. È gente con difficoltà economiche a fare cose del genere. Gente che cerca un modo per sgusciare da sotto.
Gli ho chiesto di lasciarmi usare il telefono dell’atrio.
«Un sacco di giovani cerca di far colpo sul mondo comprandosi questo e quello» ha commentato il portiere.
Io ho chiamato Tyler.
Il telefono ha squillato nella casa che Tyler aveva in affitto in Paper Street.
Oh, Tyler, ti prego, rispondi.
E il telefono squillava.
Il portiere mi si è affacciato sulla spalla e ha detto: «Un sacco di giovani non sanno che cosa vogliono veramente».
Oh, Tyler, ti prego, salvami.
E il telefono squillava.
«I giovani credono di volere il mondo intero.»
Liberami dai mobili svedesi.
Liberami dall’artistico-funzionale.
Il telefono squillava e Tyler ha risposto.
«Se non sai quello che vuoi» ha detto il portiere, «finisci con un mucchio di roba che non vuoi.»
Possa non essere mai completo.
Possa non essere mai soddisfatto.
Possa non essere mai perfetto.
Liberami, Tyler, dall’essere perfetto e completo.
Ci siamo dati appuntamento in un bar.
Il portiere ha voluto un numero dove la polizia potesse rintracciarmi. Pioveva ancora. La mia Audi era ancora al suo posto, ma con una lampada a stelo alogena Dakapo sparsa sul parabrezza.
Io e Tyler ci siamo trovati e abbiamo bevuto tanta birra e Tyler ha detto che, sì, potevo andare a stare da lui, ma dovevo fargli un favore.
L’indomani sarebbe arrivata la mia valigia con il minimo indispensabile, sei camicie, sei paia di mutande.
Lì, ubriaco in un bar dove nessuno ci stava a guardare e a nessuno importava niente di noi, ho chiesto a Tyler che cosa voleva che facessi.
«Voglio che mi tiri un cazzotto più forte che puoi.»