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"Winter's bone" è il film indipendente dell'anno che batte bandiera statunitense. A differenza di "Precious", leone ruggente un anno fa, promosso dalla Winfrey e affine alla comunità nera, "Winter' s bone" non ha elementi di raccordo ad un gruppo sociale, nè un presentatore d'eccezione. Perciò il suo successo al boxoffice e la sua accoglienza da parte della stampa e del pubblico non sono mediati da altri. La differenza maggiore che separa "Winter's bone" da "Precious" sta, in realtà, nella resa qualitativa, che si può definire quasi perfetta per l'uno, pessima per l'altro. Debra Granik, la regista del thriller-dramma ambientato sulle Ozarks, ha una visione della violenza realistica, quasi opprimente, macabra, tendente in certi punti all'horror vero e proprio, molto distante dal dramma urban, sporco e aggressivo, di Lee Daniels. I due film non sono paragonabili soprattutto per la funzione riservata al paesaggio. In "Precious" lo sfondo sfiora la cartolina, la casa sembra essere stata creta da un designer del ghetto, gli interni dominano, facendo emergere un tratto sociale chiaro; in "Winter's bone" dominano gli spazi all'aperto, le foreste, gli alberi secolari, gli animali, i laghi semighiacciati, le lunghe salite e le ripide discese. Questa giustapposizione, all'apparenza inutile, invece è molto intrigante per ciò che concerne il tema della violenza. Se questa risulta, nel malato mondo del ghetto, quasi ingiustificabile, e riconducibile a tematiche piuttosto inflazionate come lo strupro e l'antagonismo sessuale madre-figlia e gioca molto sull'imperfezione fisica da evidenziare, qui la violenza trova il suo habit naturale, circondata da un istinto di sopavvivenza, da un'inesistenza della comunità, dalla solitudine di ogni casa immersa in un singolo spazio. Piuttosto che giocare la carte dei mostri, la Granik è abile a giocare la carta degli "indifferenti", che può tramutarsi in lotta o in aiuto. La madre della protagonista è completamente inesistente, il padre scomparso dopo aver ipotecato la casa, le persone che entrano ed escono fanno sistematicamente male l'una all'altra, senza eccezioni. Non c'è un salvatore, nè un persecutore. C'è il caso, il soffio dell'inverno e la necessità reale, quella economica, mette in moto l'azione. I personaggi, compreso in parte la protagonista, sono esseri sgradevoli, ma, in fin dei conti, accomunati da una forma di vicinanza che non è comunitaria ma ambientale e che non può non avere ripercussioni relazionali. Paradossalmente, il mondo montano si rivela essere tanto più forte e umano del mondo dei quartieri periferici di città. E' un'umanità carica di violenza, orrida, instabile, ma comunque è una forma di umanità. Inoltre i sentimenti dei personaggi non sono facilmente comprensibili, etichettabili, gridati. Certo che alla fine, emerge una traccia luminosa a riscaldare il freddo inverno, ma è una fiammella in un mare di gelo. Senza trovare, per forza, in "Frozen river" un degno punto di partenza, "Wintor's bone" si affranca dal cinema americano perchè dimostra ampiamente la sua indipendenza, non propone soluzioni facili, forse non propone soluzioni per nulla. Certo il thriller si manifesta, c'è un esito, ma è la costruzione dei personaggi, insieme alle ultime battute, a far emergere che la loro condizione è precaria. Il cast è trasfigurato, ma è Jennifer Lawrence la vera attrice destinata alla gloria. Il suo personaggio, forte, femminile, autonomo, è una sorta di Alice nel paese delle sventure. E non c'è il tempo per incontrare conigli e animaletti, bensì solo il tempo per squartarli e mangiarli. Corman McCarthy sarebbe ammirato da questa visione.
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