The Amazing Spider-Man, Rai 2, ore 21,12.
(Ripubblico la recensione scritta all’uscita del film)The Amazing Spider-man, regia di Marc Webb. Con Andrew Garfield, Emma Stone, Rhys Ifans, Sally Field, Martin Sheen. Voto: 7+
Dimenticate la trilogia di Sam Raimi. In questo reboot si riparte da zero, si ri-racconta uno Spider-man allo stato aurorale quando, adolescente sfigato, viene morso dal ragno fatale e sviluppa i suoi poteri. Riuscita eccellente, perché mai super eroe fu più umano e vulnerabile e nostro simile di questo. The Amazing Spider-man del suo protagonista accentua la quotidianità, che neppure gli speciali poteri riescono a ridisegnare e stravolgere. La regola non scritta secondo cui nei film eroistici contano solo le scene d’azione e il resto è fuffa (esattamente come nei porno conta solo il sesso), qui viene ribaltata, anzi distrutta. Il che fa di questo film qualcosa di notevole. Poi c’è Andrew Garfield, eccellente.Non so se piacerà ai nostalgici dell’ormai storico Uomo-ragno firmato Sam Raimi, quello con il nerdissimo e quasi improponibile Tobey Maguire e Kirsten Dunst, eppure di massimo successo. Io, che nostalgico non sono e neppure un fanatico feticista dei super eroi su carta o schermo, questo The Amazing Spider-man l’ho trovato bello, molto bello. Un reboot che riesce a rifondare e rivitalizzare la saga come già era riuscito a Christopher Nolan con l’uomo-pipistrello in Batman Begins. Cerco di spiegare e di spiegarmi il perché, visto che il regista Marc Webb – che finora aveva solo realizzato quella strana, notevolissima rom-com indie che era (500) giorni insieme e che sembrava dunque il meno adatto per avventure in CGI* come questa – non imprime un segno autoriale particolarmente forte al film, come era riuscito invece a Sam Raimi col suo Uomo-ragno così stilisticamente rétro. Non ha nemmeno, in tutta evidenza, la smagliante visione cinematografica, quell’onirismo al confine del delirio di Christopher Nolan, la sua prepotente immaginazione. A fare di questo The Amazing Spider-man qualcosa di vicino all’eccellente non è la regia, la messinscena, che è buona ma abbastanza media, piuttosto l’approccio al suo protagonista, la sua riconfigurazione. Questo SM di supereoico non ha niente, quei super poteri che acquista grazie o per colpa del morso di un ragno sono delle volte un impiccio con cui fare i conti e imparare a convivere, al peggio una maledizione, al meglio una sorta di magia ottenuta in regalo con cui potersi divertire. Tutto qui. Peter Parker, il ragazzo qualunque che si scopre Spider-man, resta il protagonista – sempre – di questa avventura, il suo alter ego, il suo doppio in calzamaglia produttore di resistenti ragnatele che gli consentono mirabolanti performance, non si impossessa mai di lui, non lo sovrasta mai, resta al servizio della sua normalità, ne è per così dire una naturale estensione nell’eccezionalità. Mai s’era visto un super-eroe così comune, così medio e vulnerabile (la quantità di botte che incassa e di ferite e ulcerazioni è impressionante). Il film, nel suo ri-raccontare la storia, nel suo ri-costruire il personaggio, parte dall’inizio, e ci ri-consegna uno Spider-man allo statu nascenti, nel suo passaggio da adolescente vittima dei bulli della sua scuola a possente difensore della giustizia e del bene collettivo. Spider-man aurorale, che consente agli sceneggiatori e al regista Marc Webb di spazzare via tutti i precedenti e di mettere a punto un nuovo paradigma, quello dell’eroe riluttante, dell’eroe che non è tale, o che è eroe proprio non essendolo e non desiderandolo. Eroe per caso, ma che poi accetta la sua nuova identità, o si arrende ad essa, con lo spirito calvinista di servizio, di dedizione al proprio Beruf, alla propria professione-missione-vocazione-destino di cui parlava Max Weber**. Dunque, Peter Parker, che ha perso i genitori da bambino in un oscuro incidente, viene allevato dagli affettuosi zio Ben e zia May (rispettivamente Martin Sheen e Sally Fied, due attori che avevamo perso un po’ di vista e che ritroviamo volentieri come certi vecchi amici, e sono fantastici tutti e due, perfetti e commoventi e credibili nella loro raffigurazione di due persone perbene e qualunque, eroi veri del quotidiano). La sua vita cambia quando entra in contatto con lo scienziato che aveva collaborato con i genitori e che sta conducendo misteriosi quanto allarmanti esperimenti sulla ricombinazione genetica uomo-animale. È per vederci più chiaro che Peter penetra nei laboratori e finisce punto dal ragno fatale, trasformandosi in Spider-man. Parallelamente, il mad doctor (un perfetto e gelido Rhys Ifans, sinistrissimo e spaventevole e minaccioso come sanno esserlo solo certi biondi), cui manca un braccio, si inietta un siero ricavato dalle lucertole, rettili che notoriamente hanno la capacità di rigenerare la coda, nella speranza che gli ricresca l’arto mancante. Naturalmente si trasformerà in mostruoso lucertolone e metterà in pericolo la pacifica New York. Lotta tra Peter/Spider-man e lui, e indovinate come andrà a finire. Non manca la sottotrama romantic comedy, con la bionda e decisa compagna di scuola Gwen che si innamora del nerd Peter intuendo prima di tutti che là sotto cova qualcosa di interessante con la stoffa del super eroe. Lei è Emma Stone, con frangiona simil Olivia Newton-John/Grease (il film è ambientato in una strana contemporaneità inquinata da modi e stili dei decenni precedenti), tosta e convincente, e molto più a suo agio che nel ruolo da tinca*** toccatole in The Help. Lui (non ne ho ancora parlato) è Andrew Garfield, meglio noto come il socio buggerato di Mark Zuckerberg in The Social Network, uno dei migliori attor giovani in circolazione della generazione 20-30 insieme a Jesse Eisenberg e Joseph Gordon-Levitt, che al suo Parker/Spider-man conferisce nevrosi e fratture psichiche, smarrimenti e fragilità alla James Dean, ma per davvero. Con lui non pensiamo mai, neppure per un momento, che il suo personaggio sia bidimensionale, come spesso capita agli eroi di carta messi in cinema, anche quando li interpretano i migliori attori, lui gli dà profondità, gli dà quella terza dimensione dell’anima o della mente che è uno delle ragioni che rendono questo film assai diverso dal solito blockbuster. Nella calzamaglia (bruttarella, va detto, ma anche questo intensifica il sapore di spoglia normalità e di non-glamour del film) esibisce un corpo longilineo e anche sottile che negli scontri con il mostruoso Connors/Lizard sembra ancor più infragilirsi, e che eppure resiste resiste resiste, trasformandolo nell’ennesima reincarnazione dell’archetipico David anti-Golia. The Amazing Spider-man resta soprattutto un teen-drama che solo dopo quasi un’ora (sembra tanto, ma non è così) sfocia nelle prime spettacolari scene a effetti speciali, che non sono una rottura narrativa ma l’esatta conseguenza, l’inevitabile e naturale progressione di quanto abbiamo visto fino a quel momento. Non c’è frattura tra il racconto senza super poteri e quello di super poteri, come quasi sempre capita nei film eroistici. Che, lo sappiamo, funzionano come i porno: contano solo le scene d’azione, quelle in cui il super eroe si scatena e ci abbaglia con le sue prodezze (oggi potenziate e moltiplicate dal 3D), gli scontri con i mostri e i balzi tra i grattacieli di perigliose metropoli, le altre sequenze invece sono solo un non-interessante prologo al climax, esattamente come in un porno valgono solo le scene di sesso e il resto è percepito dallo spettatore-voyeur come inutile zavorra e perdita di tempo. The Amazing Spider-man distrugge questo non scritto ma ferreo canone che presiede agli action super eroistici, e riposiziona il baricentro della propria narrazione nella normalità di Peter Paker e non nelle sue mirabolanti performance. O meglio, lega queste a quella ed è, secondo la mia opinione, un grande risultato, ciò che fa di questo film un film notevole e degno di visione.
* CGI: computer generated imagery.
** Max Weber, “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo”.
** “Ruolo da tinca: «Sono quei personaggi che stanno sempre in scena ma significano poco o niente» (Luca Zingaretti in un’intervista rilasciata a Simonetta Robiony della ‘Stampa’).
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