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«Ci sono persone in Siria e Iraq che stanno tramando per compiere atti terribili in Gran Bretagna…finché l’ISIL [lo Stato islamico, o ISIS] esiste saremo in pericolo». «Il paese sia intollerante verso l’estremismo». Parole di oggi del primo ministro inglese David Cameron, a commento dell’attentato che ha colpito la città turistica tunisina di Sousse ─ dove un pazzo armato di kalashnikov ha ucciso 39 turisti in spiaggia, di questi 30 sono inglesi.
La scorsa settimana, durante una conferenza internazionale sulla sicurezza in Slovacchia, Cameron aveva rivolto un discorso molto diretto e duro alla comunità musulmana inglese, accusandola di non fare abbastanza per isolare il fenomeno del radicalismo, per distinguersi da esso, e per fare in modo che i giovani islamici non finiscano attratti dalla narrativa jihadista. Un atteggiamento che ha definito il “condoning quietly” delle idee estremiste da parte di aree della comunità islamica. «Ci sono sempre stati i giovani arrabbiati che sposano cause che credono rivoluzionarie. Questa causa è cattiva, è contraddittoria, è inutile ma è oggi particolarmente potente. E io credo – ha detto Cameron – che sia così potente perché le viene dato credito. Così, succede che se tu sei un ragazzo che ha problemi con il mondo o una ragazza in cerca d’identità e ci sono argomenti che sono condonati silenziosamente su internet – e forse anche in alcune parti della comunità – allora non è un salto così lungo, passare da teenager inglese a combattente dello Stato islamico o a sposa di un jihadista. Un salto meno lungo rispetto a chi non è stato esposto a questi argomenti».
Erano i giorni in cui iniziava il Ramadan, quelli in cui i politici solitamente si arruffianano i consensi delle comunità islamiche con auguri e “messaggi ecumenici”, mentre invece Cameron c’è andato giù pesante ponendo il problema all’Islam stesso, accusando parti della stessa comunità islamica di essere eccessivamente docili con l’estremismo.
Una linea inusuale tra i leader occidentali, che non accedono facilmente a certe dialettiche per non correre il rischio di di accuse di islamofobia e di generalizzazioni. Vero che quel discorso di Cameron arrivava in un momento particolarmente sensibile. La scorsa settimana si è saputo che Talha Asmal, un ragazzo musulmano di diciassette anni di Dewsbury, Inghilterra centrale, si è fatto saltare in aria con un’autobomba a Baiji, dove infuoca la battaglia tra IS e soldati iracheni per il controllo della più grande raffineria d’Iraq. Vero che i dati sono inquietanti: sarebbero almeno seicento gli inglesi partiti per il jihad tra Siria e Iraq. Vero che quello che è successo a Sousse ha alzato ancora più in su l’asticella dello “sconvolgente ed efferato”, e ha colpito al cuore l’Inghilterra. Ma oltre l’aspetto emotivo ed emozionale, le parole di Cameron vanno realmente calate nel problema.
La stessa Tunisia ha fatto capire che quel problema sta in parti della comunità religiosa islamica: dopo l’attentato al resort Imperial Marhaba, il governo di Tunisi ha ordinato la chiusura di ottanta moschee considerate troppo inclini alla predicazione radicale e bacini colturali del jihadismo.
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Lo scorso venerdì, il primo dall’inizio del Ramadan, ci sono stati altri due attacchi terroristici oltre a quello tunisino, uno in Francia e uno Kuwait, quasi contemporanei, quasi un film. Con ogni probabilità non erano parte di un’azione comune organicamente diretta dalle sedi madri del Califfato. L’uomo di Parigi aveva problemi personali con la vittima, e continua a dire di non essere un terrorista, anche se c’è ancora da capire gli aspetti legati al selfie che si è scattato con la testa del suo datore di lavoro decapitato, inviando l’immagine a un account Whatsapp canadese, che sembra appartenga a una persona la cui rotta è stata tracciata ora in Siria. Il kamikaze che si è fatto esplodere in una moschea sciita a Kuwait City, è l’unico che ha legami diretti con il Califfato: la Regione di Nadj dello Stato islamico, cioè il centro dell’Arabia Saudita, ha rivendicato la strage. Il terrorista tunisino, invece, sembra un self-made: testimonianze raccolte dal New York Times e dal Wall Street Journal, lo descrivono impacciato nell’usare il fucile d’assalto, impreciso nella mira, un principiante, insomma, non uno che avrebbe ricevuto un qualche genere di preparazione militare nei campi del terrore sparsi per il mondo. Era uno studente incensurato, forse aveva un complice ─ e sarà interessante capire chi fosse quest’altra persona.
Ma per certi aspetti, questo è ancora più preoccupante: le cellule non hanno bisogno di prendere posizione, contatti, creare basi e logistica. I terroristi sono ispirati all’azione dalla semplice e diretta narrativa, “lupi solitario” li chiamiamo, e in quest’ottica i movimenti che potevano attirare le attenzioni delle intelligence scompaiono, perché chiunque può diventare un terrorista fomentato dai messaggi d’odio dello Stato islamico.
Pur nella disconnessione dei tre fatti, si può cogliere comunque l’evidenza di una linea comune, che sta probabilmente in un testo di cui da diverso tempo si discute negli ambienti degli analisti, poco conosciuto in Italia e in Occidente, di cui per la prima volta, mesi fa, ha parlato su Twitter Daniele Raineri del Foglio: “Idaraat al Tawahush”, ossia “La gestione delle barbarie”.
L’autore è un qaedista conosciuto con il nome di Abu Bakr Naji, ucciso nel 2008 da un attacco drone in Pakistan. Nel libro si spiega che la nazione dei musulmani, la Umma, dovrà attraversare varie fasi prima di arrivare all’equilibrio finale del Califfato. La prima di queste riguarda appunto la gestione della barbarie: una campagna iperviolenta per destabilizzare gli Stati di diritto, mettendo nell’obiettivo i luoghi più sensibili e i più delicati ─ e venerdì lo scopo è stato raggiungo: una centrale del gas in Francia gestita da una ditta americana in affari con l’Arabia Saudita, cioè tutti insieme i demoni del jihad dell’IS; una moschea sciita in Kuwait, cavalcando l’odio settario che sta infiammando la regione mediorientale; una spiaggia tunisina, paese simbolo della vittoria delle Primavere arabe sull’Islam di regime, che si regge sul turismo.
Una nota. Cameron chiama lo Stato islamico, o ISIS, “ISIL”: è un uso molto comune nel mondo anglosassone (è quello che utilizza la Casa Bianca, per capirci), dove la “L” sta per Levant, Levante, regione storica mediorientale, e serve soprattutto per togliere di mezzo la parola “Siria” dall’acronimo, con il fine di evitare di esplicitare direttamente che l’Occidente sta combattendo una guerra a un nemico comune, il Califfo, dallo stesso lato del fronte del regime siriano di Bashar al Assad. A proposito di acronimi, Cameron ha criticato la BBC, colpevole secondo lui di utilizzare il termine “Stato islamico” e legittimarne l’esistenza ─ e favorirne la suggestione.
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