Giovedì 14 Giugno 2012 09:42 Scritto da marco.ernst
In un regno e in un tempo lontani c’era un re, non diverso dai re di tutti i tempi e di tutti i luoghi. Egli si reputava al di sopra di ogni legge, non solo di quelle scritte, ma anche di quelle dettate dal rispetto per la vita e la dignità del prossimo.
Il re si riteneva padrone di ogni cosa, persona, animale del suo regno che, ovviamente, riteneva il più importante sulla terra. In realtà non era neppure cattivo, ma solo ottuso e talmente pieno di sé da non fare nulla per migliorarsi.
Aveva costruito la sua corte come tutte le corti dei regni dei re stupidi quanto lui.
Sperperava il poco tempo che l’Entità Suprema ci concede, in feste, crapule e banchetti.
Gli piacevano soprattutto quei pranzi che non sono mai mutati dal tempo dei romani fino al rinascimento, pieni di commensali ipocriti e adulatori che per scroccare la partecipazione a un banchetto avrebbero rinnegato i propri avi, e che vengono allietati da ballerine, acrobati, nonché dai lazzi dell’immancabile giullare di corte.
Flak, questo era il nome del giullare o, almeno, quello che si era scelto, non era, come sarebbe dato pensare, il solito uomo di mezza età, magari gobbo e non meno viscido dei convitati, ma un giovanotto atletico, colto e intelligente, che approfittava della sua posizione non solo per colpire con l’arma della satira il re e i suoi amici, ma anche per tenere i collegamenti con un gruppo di ribelli che non accettavano passivamente i soprusi e le malefatte del sovrano e dei dignitari di corte. I banchetti, le battute di caccia, gli abbellimenti del palazzo reale, avevano, infatti, un costo non indifferente per le casse di un regno così piccolo e tale costo veniva scaricato sulle spalle del popolo, dei contadini, degli artigiani, dei piccoli mercanti. Anche questa prassi non è mai cambiata nel corso dei secoli. Ad ogni banchetto le guardie del re saccheggiavano le fattorie dei contadini, rubando, ma loro dicevano “requisendo” nel nome della ragion di stato, polli, maiali, vitelli, ortaggi e frutti. Le tasse strangolavano il popolo anche nei periodi di carestia, quando i raccolti bruciavano per la siccità o erano spazzati via dalle alluvioni o distrutti da gelo e grandine.
Gli artigiani che dovevano provvedere alle migliorie del palazzo reale non venivano mai pagati con la scusa che lo sfarzo della reggia apparteneva a tutto il popolo, anche se gli unici a goderne erano però i nobili.
Poiché le rivoluzioni non si fanno con le proposte e col dialogo, ma con le armi, i ribelli meditavano di uccidere il re ed i suoi inutili ministri. Certo che a quel tempo le idee non erano ben chiare, nessuno possedeva il concetto di stato democratico o di teorie economiche, perciò le rivoluzioni consistevano per lo più nel sostituire una dittatura con un’altra: cambiavano le persone, ma non le condizioni del popolo; gli unici a stare meglio erano i ribelli che s’impadronivano del potere. A seconda della loro vittoria o della sconfitta, poi, i ribelli possono essere chiamati eroi o terroristi, ma sono sempre le stesse persone: dipende da quale storia e storico giudicano le loro imprese.
L’unico forse ad avere idee un po’ più chiare sul da farsi era proprio il buffone di corte, ma una persona da sola non può fare la storia e un giullare resta sempre un giullare sotto ogni regime.
Per questo Flak s’accontentava di piccole soddisfazioni, come mettere il re alla berlina, far sì che i suoi stessi amici ridessero di lui; anche lui rideva, senza capirle, alle pungenti battute del suo buffone, e non si accorgeva, nella sua presunzione, di essere lui il bersaglio e di ridere di se stesso. La battuta preferita del giullare era: “Sapete perché il re porta la corona? Per nascondere le sue corna!”.
Nonostante la ripetesse ad ogni banchetto, ogni volta tutti i presenti si scompisciavano dalle risate, re compreso, non immaginando quanto le sue corna fossero reali, visto che Flak stesso era stato amante della regina, uno dei tanti. Col passare del tempo, però, anche le persone più scaltre e intelligenti commettono errori, speso perché la presunzione dà loro troppa sicurezza.
Così avvenne che pian piano il re, ma più di lui i suoi consiglieri, cominciarono ad accorgersi di quanto le battute del giullare si fossero spinte oltre, come spesso si spostassero dalla vita privata del re, il che era già abbastanza grave, all’aperta critica del sistema politico ed all’elogio della ribellione: “Sapete come si chiama il re più buono del mondo? Re morto!”.
Così alla fine Flak venne smascherato, gettato in prigione e processato.
Ovviamente giudice, accusa, difesa e giuria erano tutti racchiusi nella figura del re, il che non lasciava molte speranze al processato. In queste occasioni il sovrano approfittava per mostrare al popolo il pugno duro, salvo poi mascherare le atrocità con falsa magnanimità.
Ci volle meno di una giornata a concludere il processo, visto che la sera c’erano i festeggiamenti per il compleanno di uno dei figli del re, o almeno di un figlio della regina che il re credeva fosse anche suo, ma che probabilmente non lo era. “Per il comportamento ingiurioso e irriguardoso, per aver cospirato contro il tuo Signore che sempre è stato generoso e magnanimo con te, per avere tradito la sua fiducia e la sua benevolenza osando addirittura alzare gli occhi sulla regina, tu, Flak sei condannato alla decapitazione. Tuttavia, il re, nella sua infinita bontà, e in considerazione dei servigi che hai prestato a corte, ti concede di esprimere tre desideri, prima che la condanna venga eseguita”, così recitava la sentenza, uguale a mille altre pronunciate nei confronti di chiunque non andasse a genio alla reale corte.
Flak, a questo punto, aveva perso ogni voglia e ogni propensione al lazzo e, quando parlò, fu molto serio, come solo può esserlo chi vede la sua vita arrivare alla fine: “Ringrazio per la opportunità che mi viene concessa, ma che desideri materiali volete che abbia chi sta per partire per un viaggio dal quale non farà mai più ritorno? Così vorrei non cibi speciali, non ricche vesti per la mia sepoltura, ma il mio desiderio è di portare con me tre immagini: la visione del mare calmo al tramonto, il pianto di un neonato, il sorriso di sua madre mentre lo accarezza.”
Così si espresse il giullare, oramai ripulito dalle vesti e dal trucco di scena, con profonda sincerità.
Per lui chiudere per sempre gli occhi su quelle immagini, le tre più belle cose della vita, avrebbe significato che non aveva vissuto invano, che la sua vita aveva avuto uno scopo.
A queste sentite parole, anche il duro cuore del re si commosse.
“Le tue parole mi hanno toccato, per questo e per festeggiare il compleanno di mio figlio, voglio essere ancora più magnanimo e concederti un’ulteriore possibilità: in occasione della visita dei re dei reami confinanti che vengono a rendere omaggio alla mia grandezza, occorre ripulire dai sassi la strada maestra. Tu dovrai raccoglierli assieme ad altri condannati, visto che le casse del regno non possono permettersi di pagare delle persone per questo servizio, Però attento, se a sera non avrai raccolto almeno mille sassi o se arriverai alla fine della strada senza questo numero di pietre, la sentenza verrà eseguita. Se raggiungerai l’obiettivo, verrai scacciato dal regno, ma avrai salva la vita”. Così sentenziò il re, dando una nuova speranza a Flak: non era poi un’impresa così impossibile: mille non erano pochi, ma neppure tantissimi per un intero giorno di lavoro. Lui era forte, atletico, veloce, e avrebbe portato a termine il compito senza problemi.
Fu così condotto sulla strada con un grande sacco di juta sulle spalle e una guardia che lo sorvegliava ed egli cominciò il suo compito.
Non partì a spron battuto, ma se la prese con calma. D Dopo un’ora di lavoro si fermò a bere e a sgranchirsi i muscoli. Più tardi si sedette sul ciglio della strada a mangiare il pane e formaggio che gli era stato dato. Nel frattempo gli altri condannati andavano avanti, molto più avanti di lui, mangiando mentre lavoravano. Flak era così rimasto ultimo; i sassi che trovava erano i più piccoli e giudicò che non valeva la pena piegarsi per delle pietruzze. A metà pomeriggio si fermò a riposarsi e si appisolò. Quando si svegliò, s’accorse che le ombre sulla strada si stavano allungando; allora controllò nel suo sacco: aveva si e no un centinaio di sassi: doveva affrettarsi, a questo punto. Si mise a raccogliere ogni sassolino che trovava sulla strada oramai quasi ripulita, cercava di accelerare il suo passo, ma dopo poco doveva fermarsi per raccogliere un sasso sfuggito ai suoi compagni di sventura. Dopo una curva gli apparve improvvisa e vicinissima la fine della strada; vide il sole, oramai ridotto ad una mezza arancia rossastra, che spariva dietro le verdi colline. Non ce l’avrebbe mai fatta, aveva distribuito male le sue forze e aveva cercato di rimediare alla fine, ma era troppo tardi.
Poi fu il tramonto, il termine della strada e i sassi da raccogliere erano sempre mille, ma non avrebbe più avuto il tempo e l’opportunità di farlo, perché nessuno gli avrebbe concesso un’ulteriore occasione.
Siamo tutti su di una strada polverosa con il nostro compito assegnato, e quando giungiamo alla fine anche noi ci accorgiamo che il tempo è scaduto e non siamo riusciti a raccogliere i nostri mille sassi, perché il termine della strada è sempre dopo una curva e lo si vede solo all’ultimo momento.