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Flannery O’Connor: perché scrivo

Da Marcofre

Lavoro su basi così precarie che qualsiasi risultato mi sembra un miracolo. Però non ti mettere in testa che scrivo per espiare. Scrivo perché lo so fare bene.

Da questo brano, si capisce (spero) che il libro “Sola a presidiare la fortezza” (le lettere di Flannery O’Connor) mi è stato recapitato dal postino. È la quarta di copertina che ospita questa frase che contiene di tutto e di più.

Da una parte, ci trovo lo stupore (perenne), di chi scrive, e si sente sempre sull’orlo di un baratro. Lo ha voluto, oppure ci si è trovato senza rendersene conto, e solo allora ha capito che era appunto un baratro? Domanda superflua: quando la vertigine mozza il fiato, il cervello ruota su sé stesso nella scatola cranica e senti che basta nulla per scivolare giù, non hai più tempo per cercare le risposte. Cerchi di uscirne in qualche modo.

Se riesce a conseguire un risultato deve per forza scomodare il termine “miracolo”.
E subito dopo che cosa abbiamo?
La consapevolezza di scrivere perché riesce bene, perché Flannery O’Connor lo sa fare bene.

Strano questo modo di interpretare la scrittura. Paura, e coscienza delle proprie qualità sembrano la coppia indissolubile per questa autrice statunitense che trascorse buona parte della vita nella sua fattoria. Ma non è di questo che desidero scrivere adesso; ne parlerò a tempo debito.

Non ne sono sicuro, ma immagino che buona parte degli scrittori pensino così, ma preferiscano tacere (soprattutto la parte de “Scrivo perché lo so fare bene”) per modestia.

Ai tempi della O’Connor, pubblicare era difficile: tutto passava attraverso l’editore e se non si apriva quella porta o portone che dir si voglia, non c’era altro da fare che rassegnarsi. Perciò la pubblicazione era la prova di una presenza, c’era probabilmente del talento (non sempre è così, ma facciamo finta di niente).

Adesso un’affermazione come quella della O’Connor rischierebbe di essere considerata presunzione? O ignorata perché un esercito di persone è sbarcato su Lulu o Amazon con le proprie opere letterarie? Certo; ma non smetterebbe di essere vera. Al di là dei gusti personali, esiste una diversa dimensione cui certi autori appartengono: ed è una dimensione gigantesca.

Il Web ha dato la stura a parecchia mediocrità, e questa non smette di blaterare e far chiasso.

Inoltre si afferma che ormai lo scrittore non ha più l’alone magico di un tempo, eccetera eccetera. Però nessuno riesce a spiegare perché questo Paese dove nessuno legge, sia pieno di “scrittori” disposti a tutto per vedere stampato il loro nome in cima a qualcosa. E i medesimi siano alquanto indifferenti all’idraulica, all’ippica e alla pesca amatoriale.

Se non lo fanno per l’alone magico che sarebbe “scomparso”, per quale ragione insistono?
Di certo alcuni lo avranno, per questo firmano contratti con case editrici, sono invitati a festival letterari e rilasciano interviste.

Il talento è e resterà sempre moneta rara, così come l’arte sarà sempre roba per pochi. E non è perché qualcuno vuole essere snob o elitario: con tutte le risorse che abbiamo a portata di clic per imparare le lingue, l’arte, la letteratura, dove si trova adesso, la maggior parte della gente? Su Facebook a giocare a Farmville. E quando gli si chiede se per caso, invece di lamentarsi di come vanno le cose, non hanno mai pensato di darsi da fare, rispondono che non hanno tempo. E poi tornano a giocare a Farmville.

Credo (credo) che Flannery O’Connor sia utile per ricordare a ciascuno di noi che lo scrittore, piaccia o no, ha davvero un alone magico. Un talento che molti gli invidiano, e pochi possono vantare.


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