Togliere Denzel Washington e Robert Zemeckis da "Flight" avrebbe procurato alla pellicola sicuramente attenzione minore e, chissà, magari l'avrebbe fatta passare addirittura inosservata o quantomeno ricoperta di critiche. Invece si è finito per esaltare il ritorno di Robert Zemeckis al live action e la precisa, impeccabile interpretazione di Denzel Washington nei panni di questo pilota d'aerei alcolizzato cronico - e non contrario alle droghe - indagato come possibile responsabile di una sventata tragedia che ha visto un volo di linea andare in avaria ed effettuare un atterraggio di emergenza con successive sei morti e decine di feriti.
Il regista premio Oscar per "Forrest Gump", redivivo dalle esperienze in motion capture e di produttore, si rilancia cambiando colonna portante ma non formula, sostituisce Tom Hanks con Denzel Washington e lascia a lui il controllo assoluto di una parabola di redenzione che somiglia più a una lezioncina morale che ad altro. L'eroe oscuro, autodistruttivo che si è costruito (e continua a costruirsi) terra bruciata intorno pur di non rinunciare a un altro litro di vodka e ad una birra in più, ma nel suo mestiere è talmente unico da riuscire a limitare i danni di un incidente che, dati alla mano, era impossibile da contenere. Il problema è che "Flight", andando a stringere, non è nient'altro che una storiellina di una persona perennemente ubriaca, incurabile e ricoperta di demoni, che alla fine anziché farla franca ancora una volta e continuare a mentire al mondo e a sé stesso, decide di assumersi le proprie responsabilità punendosi per purificarsi dai propri peccati.
Perché chiudere predicando metaforicamente che l'alcol andrebbe bevuto responsabilmente o evitato, e che assunto in forti dosi porta un soggetto a dipendenza e all'impossibilità di conservare legami con persone amate e non, fa un po' troppo campagna di sensibilizzazione. E con tutto il rispetto, per quanto sia giusto, è ipotizzabile che tutti ne fossimo già al corrente.
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