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Folgorazione Copenhagen

Da Gynepraio @valeria_fiore

Con questo post di qualche mese fa credo di aver reso nota la mia posizione nei confronti della maggioranza dei Paesi del mondo: bello, ma non so se ci vivrei. Ho l’impressione che a idealizzare altri Paesi -badate bene, non a esprimere apprezzamenti o preferenze- siano sempre le persone che tendenzialmente non hanno viaggiato o che non hanno mai vissuto da nessuna parte.

Non difendo a spada tratta nessun luogo, ma questo non m’ impedisce di invidiare apprezzare lo stile di vita di altri Paesi Europei, e di parlarne con desiderio. Ma non in forma di diario di viaggio, oh no! Se tra i miei favoriti non c’è neppure un travel blog, un motivo c’è: li trovo noiosi come una Quaresima di pioggia. Non è mai transitata per questo cervello l’idea di scrivere un crono-racconto o una raccolta di consigli: solo poche idee, ma ben confuse.

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Rapido scorcio dal battello per prototuristi decerebrati medi, che abbiamo ovviamente preso

Il viaggio non è iniziato benissimo, perché voi-sapete-chi ha lo stomaco di un agnellino celiaco e dopo l’atterraggio era tutto malmostoso e sofferente. Quando siamo faticosamente giunti all’appartamento presso il quale alloggiavamo (scelto su AirB&B in base a una sapiente matrice ponderata di criteri di mia invenzione che vado di seguito a illustrarvi: 20% distanza dal centro + 10% tasso di scippi nel quartiere secondo stampa locale + 10% presenza di romantico scrittoio sotto la finestra + 60% prezzo), ad aspettarci c’era una delusione: la padrona non rispondeva al citofono.

Pochi giorni prima, vedendo “La famiglia Belier” (votato all’unanimità “Peggior film francese dell’anno”, laddove con unanimità s’intende io e voi-sapete-chi) mi ero giusto detta che non avevo mai interagito con un sordomuto. Eccomi -parzialmente- accontentata: la nostra host, che faceva l’antropologa, era sorda. Ma non muta: sapeva esprimersi con dei suoni piuttosto comprensibili. Ciò significa che sapeva leggere le labbra e articolare parole in più di una lingua, visto che comunicavamo in inglese.

ELEGANZA. Camminare per Copenhagen è stato un piacere per gli occhi: passeggiando nelle vie pedonali, durante un normale giorno lavorativo, ho visto moltissimi ragazzi e ragazze belli, ben pettinati, ben vestiti, e nel caso delle ragazze, ben truccati (NDR. Poiché annovera nella sua carriera ben 2 amorazzi danesi, l’autrice conclude che gli unici vestiti da mozzoni se li è beccati lei, essendo notoriamente donna di sostanza). Ma anche incredibilmente ben educati (NDR. In questo caso, precisa l’autrice, sono confermate le sue esperienze giovanili). Belli loro, belle pure le case: potete fidarvi. Possiedo grandi abilità voyeuristiche da marciapiede (apprese ad Amsterdam), ampiamente affinate durante il giro di Christianshavn (il quartiere più ricco di canali e isole): il battello passava così vicino alle finestre degli appartamenti che potevo agevolmente fare il censimento dei paralume. Da qui è scaturita una profonda domanda: il design danese/scandinavo com’è nato? Perché è diventato famoso? Io ho subito elaborato una teoria: l’abbondanza di legname e l’assenza di luce hanno indotto la popolazione -ben prima dei designer- a optare per materiali naturali e durevoli e colori chiari. Quando le grandi archistar hanno fiutato il business, sono nati i primi brand e il fenomeno che vi sta dietro. Insomma, è sorto prima il prodotto e poi, in un secondo momento, l’apparato di marketing. Per favore, amici architetti e storici del design, ditemi come stanno veramente le cose, perché non voglio crepare tenendomi dentro questo dubbio lancinante. Per chi se lo chiedesse, sì, ho visitato una quantità di negozi di design spropositata (inclusa scappata pomeridiana a Malmö, la città svedese dove ci sono più negozi di mobili che di alimentari) e sì, ho avvertito il desiderio di possedere tutto. Ma no, non ho comprato nulla. E questo ci conduce direttamente al secondo punto.

RICCHEZZA. Siccome negli ultimi anni ho visitato solo Paesi in cui il costo della vita è più basso del nostro, ho sperimentato la falsa seppure magnifica sensazione di stare senz’ penzier’ altrimenti nota come living like a nababbo. Ecco, A Copenhagen non l’ho provata: musei, traghetti, treni, bus, car, taxi, bici, tutto è eccellente, nuovo di pacca, puntualissimo, scintillante ma caro ammazzato. Dopo aver ricevuto il conto del pranzo (due sandwich al salmone consumati in un bistrot carino ma senza eccessive pretese) ho realizzato di aver speso 10 euro di minerale, ho ritenuto non fosse così disdicevole riempire una bottiglietta di plastica con l’acqua del rubinetto gentilmente offertami dalla regina Margherita II di Danimarca.

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Parchi urbani irrigati con l’acqua della Regina

FIDUCIA. Questo è il punto più importante: gli abitanti di Copenhagen vivono in un Paese dall’economia solida e hanno quello che Pierangelo Bertoli definisce “lo sguardo dritto e aperto nel futuro“. Ed è questo, più che le sedie di Jacobsen e l’altezza vichinga, che suscita la mia invidia nei loro confronti. Io sono nata nell’era craxiana, ma di quell’epoca in cui le cose sembravano andare bene non mi ricordo più niente, perché poi è stato un orrido e non necessariamente cronologico susseguirsi di Tangentopoli, Forza-Italia-è-tempo-di-crescere, Parmalat, 11 settembre, PC-quindi-PDS-quindi DS-infine PDI, crisi, cassintegrazione, privatizzazioni, licenziamenti, legge Biagi, flessibilità, CoCoCo-quindi CoCoPro, lavoro interanale interinale, Bonus Bebè e Jobs Act. Io, che pure sono fortunatissima, la fiducia nel futuro non so cosa sia e vorrei tanto provarla, almeno per un po’.

Gente che esce appena arriva un raggio di sole, gente che va con i figli al festival di quartiere, che diventa antropologa e bilingue anche se è nata sorda. Cantieri aperti ovunque: nuovi condomini, ristrutturazioni, lavori di ampliamento della metropolitana. Un turismo sano, in crescita, non becero. A coronare questo ritratto di città che sa il fatto suo, i negozianti che aprono alle 8 e chiudono alle 18 (alle 14 il sabato), come a dire a noi turisti che sì, ok, comprendiamo che volete comprarvi i magneti della Sirenetta, ma noi ora chiudiamo, perché ok che il lavoro è importante ma abbiamo già fatto bene il nostro dovere, quindi niente, dite pure ai vostri amici che dovranno fare a meno dei souvenir, noi dobbiamo andare a casa dai nostri bambini biondi. Voi, su, dai andate a fumarvi due spini a Christiania, che qui si può fare pure questo, noi certo non ve ne vorremo, alla prossima, CIAONE.

Vai tu, a dagli torto.

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Io che m’intrufolo a casa dei fricchettoni di Christiania


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