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Formazione o deformazione?

Creato il 20 febbraio 2012 da Fabry2010

Pubblicato da sgolisch su febbraio 20, 2012

 

Formazione o deformazione?

 

Educare

 

Alla radice di tutte le teorie dell’educazione sta l’idea dell’individuo come un essere in divenire, una potenzialità da sviluppare affinché possa tirare fuori il meglio di sé o, per dirlo con le antiche parole di Pindaro, conoscere se stesso e diventare quindi ciò che è. Perché, a differenza dell’animale, l’uomo non funziona soltanto secondo una meccanica determinata dalla sua immutabile natura, ma possiede autocoscienza ed è dotato della forza di volontà che gli permette di ricrearsi in ogni momento della sua vita individuale e storica.

L’idea dell’educazione ha necessariamente bisogno di definire un ideale. Nella tradizione occidentale, l’uomo consapevole delle sue infinite possibilità prende in mano il proprio destino sulla terra per diventare quel soggetto autonomo della storia che l’Illuminismo proclama come ideale assoluto.

 

Degenerazioni

 

Sebbene il XX secolo ci abbia mostrato in modo inequivocabile l’altra faccia della medaglia, cioè le mostruosità di cui è capace l’uomo libero da ogni legame trascendentale – in modo esemplare, questa Dialettica dell’illuminismo viene analizzata da Max Horkheimer e Theodor W. Adorno nel loro omonimo libro del 1947 – non ci sono alternative. Nella società secolare, la responsabilità dell’uomo non può più essere delegata. Questo è il prezzo della sua libertà.

Inutile quindi quella banalissima domanda che chiede – con una buona dose d’ipocrisia e finta ingenuità – dove si fosse nascosto Dio nei campi di concentramento, nei gulag e in ogni luogo che l’uomo stesso ha trasformato in un autentico inferno sulla terra. Dice Sant Agostino: Il settimo giorno, saremo noi. Il destino dell’uomo si compierà quindi nel momento in cui sarà diventato veramente uomo.

La vera domanda non è certo dov’era Dio, ma dov’era l’uomo.

 

L’occidente è stanco

 

La secolarizzazione ha caricato l’uomo di una responsabilità che sembra più grande di lui. Anche se la sua autonomia sia stata proclamata oramai più di 200 anni fa, la storia insegna che egli non è stato – e non è tutt’ora  – in grado di gestire né se stesso, né la vita politica e sociale. Infatti, proprio in questo momento storico assistiamo inerti, quasi paralizzati, alla degenerazione della democrazia al livello collettivo e alla “primitivizzazione” dei sentimenti al livello individuale.

L’occidente è stanco. Le sue forze migliori si sono esaurite e non sa più con quali mezzi difendersi. Contro chi poi? E in nome di che cosa?

 

Cultura come antidoto

 

Un tempo si vedeva nella cultura il garante sicuro non soltanto per l’evoluzione personale dell’individuo, ma anche per quello dell’intera società. L’accesso alla cultura e all’informazione avrebbe permesso a tutti, senza discriminazione, di assumere un ruolo attivo nella vita sociale e politica e avrebbe accelerato il processo di democratizzazione, in particolare nei paesi devastati dall’ideologia nazionalsocialista e fascista. Mi ricordo che un amico anziano, una volta, mi raccontò di una specie di fiera a Milano, dove, nell’immediato dopoguerra, aveva visto per la prima volta un televisore. Pieno di ottimismo nel futuro aveva pensato che la televisione sarebbe stata un ottimo strumento per diffondere informazione e cultura tra tutti quelli che per secoli erano stati condannati all’ignoranza!

A quasi settant’anni dopo la fine della guerra sappiamo che le cose sono andare diversamente. Più che in ogni altra epoca storica, l’uomo potrebbe essere informato, ma le informazioni sono talmente tante che il suo cervello non è in grado di elaborarle in modo adeguato. Di conseguenza le rifiuta. In realtà, sotto le vesti dell’uomo globale si nasconde immutato l’antico uomo di paese.

 

Distrazione

 

Esposto a troppi stimoli, la dimensione più familiare dell’uomo odierno è il continuo stato di distrazione. Fare più cose in contemporanea ed essere in più posti allo stesso tempo è diventata la sua condizione normale. Un’intera industria inventa sempre nuove forme di pseudo-divertimenti con lo scopo preciso di eliminare quegli spazi vuoti dove l’uomo potrebbe incontrare se stesso in solitudine.

Se in altri tempi l’esperienza estetica era considerata una parte irremissibile della vita umana, capace di raffinare i gusti e la sensibilità dell’uomo e quindi di rendere più profonda e ricca la sua vita interiore, oggi proprio questa dimensione dell’arte, della letteratura e della musica è caduta in totale dimenticanza.

La cosiddetta vita culturale sembra quasi una delle innumerevole giostre – e certo non la più attraente! – in uno di quei enormi lunapark in cui si è soliti trascorre il proprio tempo libero. Al di fuori di alcune preziose nicchie, la cultura è considerata una merce di consumo tra altre. Si guarda un film, perché tutti l’hanno visto così come si legge un libro perché tutti ne parlano. E’ semplicemente un’occasione per riempire il tempo (che fa paura!), di stare in compagnia, di passare una piacevole serata, non troppo impegnativa.

Qualche tempo fa sono andata al cinema per vedere This must be the place – non certo un grande film – ma neppure uno che fa ridere. Mi sono trovata, quella sera, in una sala piena di giovani uomini e donne tra i 25 e 35 anni che ridevano a più non posso a ogni maldestra battuta del disgraziato protagonista. Era ovvio che fossero andati al cinema con il preciso intento di ridere. Nulla, nemmeno il documentario più crudele, avrebbe impedito loro di fare ciò che si fa al cinema: ridere e mangiare popcorn. Aggiungo che il film era in lingua originale, quindi gli spettatori appartenevano a una fascia sociale già relativamente istruita.

 

Bagaglio culturale

 

Dall’altra parte sta la cultura alta, quell’insopportabile peso che molti insegnanti ben intenzionati amano chiamare bagaglio culturale. Nelle aule scolastiche dove si cerca ancora in qualche modo di trasmettere i residui di una cultura sempre più frammentaria, il più delle volte, essi appaiono come un branco di elefanti smarriti sulla Fifth Avenue. Di Martin Heidegger si diceva che egli riusciva a rendere viva la filosofia. Si ricorda la sua allieva Hannah Arendt, che, quando parlava di Platone, non sembrava che affrontasse problemi del passato, ma che trattasse questioni attuali, le intime domande di tutti gli esseri pensanti di tutti i tempi.

La scuola di oggi invece è entrata in un’ottica fatale, dove l’approccio didattico prevale in modo più assoluto sul contenuto, ridotto a una semplice nozione priva di significato. In particolare nello studio delle lingue straniere questa mentalità produce libri di testo di una tale spaventosa banalità da potere essere considerati una vera e propria offesa all’intelligenza umana. Si è diffusa in pieno il pensiero utilitarista che domina tutti gli ambiti della società. L’insegnante non si comprende più come un maestro di vita, ma come mediatore d’informazioni. Laddove invece il singolo insegnante non si limita a trasmettere semplici insegnamenti professionali ovvero di sopravvivenza, i contenuti entrano per forza in aperta contraddizione con il mondo circostante. L’esperienza vissuta dello studente medio – un mondo fin troppo pieno e al contempo totalmente vuoto – non ha più nulla a che fare con le domande che lanciano la filosofia e la letteratura e che spesso rimangono senza risposta. L’incomunicabilità è pressoché totale. In un modo in cui tutto, conoscenze e persone, vengono giudicate esclusivamente sulla base della loro presunta utilità, è inevitabile che l’opera d’arte risulti la cosa più inutile del mondo. Per quale motivo si dovrebbe studiare?  A che cosa serve la cultura, la poesia, la bellezza?

 

Aporia

 

La scuola di oggi non è in grado di formulare una risposta credibile a tutte queste domande. Tira avanti come nulla fosse, sollecitando lo studente a studiare di più senza spiegargli il perché. Lo studente e l’insegnante s’incontrano su un terreno neutro, de-personalizzato, come cliente e venditore. L’apprendimento che dovrebbe riguardare non soltanto lo sviluppo intellettuale, ma quello dell’uomo intero, è ridotto a un prodotto non visibile sul quale s’investe per un unico scopo, cioè, il sempre più dubbio avvenire professionale. Chi conosce da vicino il mondo della scuola sa che il valore di una materia o di un contenuto specifico è misurato quasi esclusivamente sulla base della sua spendibilità sul mercato.

L’idea dello studente come semplice contenitore d’informazioni corrisponde perfettamente all’idea che la neuroscienza contemporanea ha diffuso negli ultimi anni sulla natura dell’uomo: un essere senza ombra, né anima, né qualità specifiche, facilmente riducibile a essere considerato un pezzo funzionante in una macchina funzionante.

 

Conseguenze

 

Invece di nominare le molte contraddizioni che devono affrontare quotidianamente tutti quelli che vivono questa realtà, di formulare in modo preciso il problema e quindi di affrontarlo anche a un livello teorico, cercando di chiarire la propria posizione, sembra che la scuola si sia arresa totalmente allo status quo e che, anzi, s’identifichi in pieno con quella visione dell’uomo funzionante, che il mercato del lavoro  richiede e che è il contrario assoluto della visione dell’uomo come instancabile ricercatore di significati.

La scuola di oggi non ha più nulla da insegnare perché essa stessa ha deciso di fare parte del sistema e anzi, di rispecchiarlo e rappresentarlo in pieno. In un mondo kafkiano, dove la scuola migliore è quella amministrata meglio – si ricorda che anche i campi di concentramento erano amministrati molto bene! – la letteratura, che per definizione è sovversiva, ha perso la sua ragione d’essere. Nella migliore delle ipotesi trasmette ancora frammentaria conoscenza, spesso nemmeno quella. La sua dimensione intima, personale e inquietante, la sua offerta di dialogo, di confronto e di crescita non può più essere accolta da individui davanti e dietro la cattedra che sono prive di domande. Che credono di sapere come gira il mondo senza accorgersi che intanto è il mondo che li manovra come vuole, pedine in un gioco dal nome sconosciuto.

 

Elogio dell’inutilità

 

Difendo quindi la meravigliosa inutilità della poesia contro ogni forma di utilitarismo e indottrinazione. In un mondo che sta eliminando silenziosamente gli spazi dove l’inutile possa ancora fiorire, dove l’uomo possa (auto)interrogarsi senza fretta e senza dover arrivare a una risposta precisa, è necessario ricordare che la libertà interiore non si può insegnare se non si vive. Anche e soprattutto in una realtà pressappoco totalizzante che proclama un ideale pervertito: l’uomo funzionante a tutti gli effetti, pronto a vendere la sua ombra per quel miserabile divertimento che gli viene offerto in cambio, un giro in giostra, un gelato color puffo.

 

Coda

 

Ho scritto quest’articolo in seguito a un’inquietante percezione di qualche giorno fa. Mentre in una quinta stavo dettando alcuni appunti, all’improvviso mi sono ritrovata a pensare che molto probabilmente avrei potuto dettare veramente qualsiasi cosa. Se questi appunti fossero serviti per ottenere un buon voto, gli studenti, almeno molti di loro – spero non tutti! – li avrebbero studiato a memoria senza riflettere, né protestare.

 

Stefanie Golisch

 


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