Se hai più di trent’anni, e sei (veramente) di Torre Annunziata, nel senso che ci vivevi, ci vivi o c’hai vissuto, c’è un film che non può lasciarti indifferente: si chiama Fortapàsc. Per uno come me che prova a scrivere qualcosa di sensato sul cinema, c’è sempre un gioco fatto di passione e distacco assieme, specie quando valuti racconti di qualcuno che non conosci, lungometraggi che pure quando diventano familiari non possono riguardare in toto la propria sfera intima, vissuta. Certo, un regista preferito, un attore che ti sta simpatico, non mancheranno mai. Però poi, interviene un rigore naturale prescindente dal personale, una propensione verso ciò che è bello oppure no; le stelle da dizionario in quel caso c’entrano davvero poco.Eppure, per questa storia di Marco Risi, tratta da un cortometraggio, “Mehari", realizzato nel 1999 da Gianfranco De Rosa (non a caso produttore esecutivo per l’occasione), sono costretto a un’eccezione, a sentirmi parte in causa.Perché in quegli anni raccontati da questa vicenda tanto dolorosa, nella città chiamata appunto Fortapàsc, io ci crescevo. Facevo le medie, giocavo a pallone nei quartieri più difficili, sfioravo situazioni estreme come quelle della strage narrata al circolo pescatori, scorgevo alcuni amici cominciare a drogarsi, prendere strade criminali; rammento persino il sindaco della storia (forse pure un filo più istrione dello straordinario Ennio Fantaschini che qui lo interpreta) entrare nel giardino di casa mia e infilarmi sulla testa un cappellino socialista del suo partito.E poi, ricordo il giorno dopo quel 23 settembre di giusto trent’anni fa. La scuola che si ferma, le lezioni saltate, perché era morto un giovane di 26 anni che provava a mettere in atto quello che tanti altri temevano di fare, dire la verità.Non era poliziotto, né magistrato, neanche giornalista (ancora). Era un ragazzo. Tentava un lavoro, frutto di una motivazione semplice che pian piano si stava sgretolando non solo a Napoli e provincia: la passione. Si chiamava Giancarlo Siani.
Fortapàsc (di Marco Risi, Ita 2009) ***
“Non ha paura a scrivere certe cose?” - “Ogni tanto si.” - “E allora perchè lo fa? – “Perché è il mio lavoro, perché l’ho scelto e non è che mi senta particolarmente coraggioso nel farlo bene, è che la criminalità, la corruzione, non si combattono soltanto coi carabinieri. Le persone per scegliere devono sapere, conoscere i fatti, e allora quello che un giornalista-giornalista dovrebbe fare è questo, informare”.Giancarlo, risponde così alle domande dirette e innocenti degli studenti poco più giovani di lui, nella palestra dove è stato invitato a raccontare la sua breve ma già significativa esperienza di praticante giornalista (abusivo, preferiva lui) al Mattino.Ha tutta la dignità che ogni napoletano dovrebbe avere, perché sempre per usare parole sue: "bisogna decidere da che parte stare, specialmente quando le istituzioni sembrano convivere con la criminalità organizzata".Chi è più vecchio, come Sasà, quando ti dà cattivi consigli dicendoti che questo è un paese per giornalisti-impiegati, ha torto. E’ solo uno che non vuole bene alla sua terra e a se stesso, un uomo che muore ogni giorno, come ha detto qualcuno che sa campare.Anche negli anni ’80 (dai quali nessuno esce vivo, citazione), ventisei anni sono proprio pochi per morire. Napoli è tutta fermento, è nervosa come una canzone di Edoardo Bennato di quel tempo, e se sei timido, perbene, non significa che tu non sia sveglio, anzi… Pasolini ti direbbe che ami la vita ferocemente, così disperatamente che non te ne può venire bene, mentre scendi dal Vomero tutti i giorni per arrivare prima a Castellammare dove sta la redazione e poi a Torre per fare le inchieste.Marco Risi è un regista che quando vuole, sa essere incisivo (l’unico a fare operazioni di questo tipo in questi anni, è il suo collega Marco Tullio Giordana). Ha fatto bene a dedicare questa storia al papà, il grande Dino, anche perché, qui, ci porta dalle parti di Francesco Rosi, il cinema come impegno civile, come documento onesto.Anche il cast di mestiere che ha messo su, aiuta: Gigio Morra, Gianfelice Imparato (le sue interpretazioni sempre più belle, vanno per sottrazione) Ernesto Mahieux, Massimiliano Gallo (potrebbe farmi diventare simpatico persino Hannibal Lecter), Renato Carpentieri, Antonio Buonomo, Roberto Calabrese (glaciale, i giovani camorristi sono così), Tony Laudadio, Michele Riondino, Daniele Pecci, Valentina Lodovini e Ennio Fantastichini (solo gli ultimi quattro non campani, ma perfettamente in parte). Poi ovvio, c’è Libero De Rienzo, con la sua migliore interpretazione (almeno ad oggi). Bravo è bravo, è anche napoletano di Chiaia (è figlio dell’aiuto regista di Citto Maselli), ha le physique du rôle e non solo, per trasmettere l’irriverenza e la dolcezza del protagonista che fa rivivere degnamente.Il resto è lasciato alla sensibilità di chi guarda, alla ricostruzione dei fatti nelle pieghe, ai vicoli stretti, al colore di quei momenti (roba per intenditori): Nino D’Angelo quando aveva il caschetto, Pino Daniele quando era Pino Daniele, Luis Miguel che canta in italiano, Verona-Napoli alla radio (anche se nella realtà c'era la Casertana in Coppa Italia di sera), la tentazione di aspettare la tua ragazza sotto al portone per vedere se esce con un altro, l’odore della Coccoina, il ticchettio della macchina da scrivere, via Chiatamone, i primi computer, lo scoglio di Rovigliano che divide due città col Vesuvio di fronte, “Ogni volta” di Vasco Rossi (ci sarà sempre un suo concerto al San Paolo) nello stereo, mentre sali da Mergellina a Posillipo.Non amo la napoletanità di facciata, e qui non ce n’è. Non amo nemmeno i santini, Giancarlo Siani era un giovane come posso essere stato io, come sono e saranno altri.Vivere a Napoli e dintorni, significa scontrarsi ogni giorno con un tasso di invivibilità che a spiegarlo, perdi solo fiato. Allora tanto vale vivere, senza agiografie, rispettando ogni giorno certi moniti, certi esempi, senza aspettare anniversari, necrologi da social network.Siani non è un’icona pop da stampare sulle t-shirt, è un napoletano che ci insegna come dobbiamo essere, niente passato, solo presente e futuro semmai. A onorarlo ci ha pensato questo film, ci sono delle rampe a lui dedicate, nei pressi di piazza Immacolata, al quartiere Arenella, e la dignità di suo fratello Paolo.°Poi ci siamo noi, si spera. 2015, Torre Annunziata, Napoli, Italia. ° L'abbraccio di Napoli a Giancarlo Siani nel trentennale della sua morte