Pochi giorni fa la rivista PLoS Genetics ha pubblicato un’interessante analisi bioinformatica che dimostra che moltissimi genomi di mammiferi, tra cui l’uomo, ospitano dei fossili molecolari di antichi virus. L’aspetto più sorprendente è che le sequenze di origine virale trovate non si riferiscono ai retrovirus, cioè quel gruppo particolare di virus che per moltiplicarsi devono obbligatoriamente integrare il proprio DNA all’interno del genoma dell’ospite. L’integrazione di DNA virale è quindi molto più diffusa di quanto si potesse immaginare, e interessa numerose famiglie di virus differenti. Gli autori dell’articolo segnalano che in alcuni casi i geni virali si sono conservati perfettamente dopo milioni di anni di evoluzione, e questo fa pensare che possano essere stati “addomesticati” e sfruttati dall’ospite a proprio vantaggio. Quello che segue è l’articolo che ho scritto per Galileo.
I due ricercatori hanno esaminato il codice genetico di 44 mammiferi alla ricerca di geni di origine virale, e l’analisi bioinformatica ha rivelato che i fossili di virus sono molto più diffusi nel regno animale di quanto si pensasse in precedenza. Sono state rilevate, infatti, tracce di ben 10 famiglie di virus differenti, tra cui lontani parenti dell’Ebola e del virus dell’epatite B. Gli scienziati non hanno preso in considerazione i retrovirus, particolari microrganismi il cui ciclo vitale prevede l’inserimento del proprio Dna all’interno del genoma dell’ospite, ma famiglie di virus che normalmente adottano altre strategie di infezione. Alcune di queste, come mostrano i risultati della analisi, sono riuscite, in un certo momento dell’evoluzione, a integrare il proprio materiale genetico nel DNA delle cellule germinali (spermatozoi e ovociti per i mammiferi) della specie che hanno infettato, permettendo ai geni virali di essere trasmessi di generazione in generazione fino a oggi.
Dopo milioni di anni di evoluzione, questi geni appaiono modificati e frammentati, e sono per lo più fossili silenziosi senza alcuna funzione. Tuttavia, in alcuni casi il DNA virale è ancora attivo nella specie ospite. In particolare il gene EBLN-1 del virus Bornavirus, che si stabilì nel genoma di antichi primati circa 50 milioni di anni fa, si presenta oggi perfettamente conservato in molti primati moderni, tra cui l’essere umano. Il fatto che sia rimasto intatto e funzionante dopo tutto questo tempo sarebbe una prova, secondo gli autori dello studio, che il gene virale è stato sfruttato dalla specie ospite a suo vantaggio, per svolgere una particolare funzione. L’ipotesi più accreditata è che sia servito per difendersi da altri attacchi di Bornavirus, agendo come una sentinella contro nuove infezioni. La proteina codificata da quel gene, infatti, è del tutto simile a una proteina di Bornavirus capace di riconoscere l’RNA di questa famiglia virale.
Altri link:
- Retrovirus (blog “Bottiglie di Leida”)