Le percentuali macro-economiche confermano purtroppo una diminuzione pari a -0.2% rispetto al trimestre precedente, consolidando quindi quello stato di tracollo economico che si protrae senza sosta da troppo tempo a questa parte.
Di fronte a questi dati che potrebbero esprimere un pessimismo in termini assoluti, sembra esserci qualche timido segnale di ripresa anche se ancora non abbastanza forte per arginare il crollo cumulato; gli indici di produzione industriale sono in salita (+0.9%), così come quelli relativi a beni di consumo e strumentali. La possibilità di attribuire all'attuale Premier ed al presente Governo la colpa esclusiva per lo status quo dell'economia italiana è una cosa tanto inesatta quanto impropria, per molti punti di vista possibili: è dal terzo trimestre del 2011 che le variazioni sul "trimestre precedente" hanno un segno meno davanti al numero. L'onda lunga di una crisi economica che non sembra conoscere sosta ha "origini" che non sono certo attribuibili ad un Governo in carica da troppo poco tempo: una semplificazione così estrema non può essere accettata, in alcun modo possibile.
Quel che si può imputare al Governo è una cosa che, da certi punti di vista, è ancora più grave: il non aver quasi mai utilizzato un linguaggio comunicativo-istituzionale all'altezza della situazione.
L'aver (pur)troppo speso vane promesse al vento, quasi come se per raggiungere indici di crescita economica soddisfacenti fosse possibile un tocco di bacchetta magica.
L'etica del "ghe pensi mi", rivisitato in chiave renziana, può aver contribuito a produrre un aumento (esponenziale?) di aspettative da parte di quelli che non si intendono in maniera sufficientemente tecnica di economia e politiche macro-economiche: chi non credeva nelle percentuali di crescita stimate era un gufo, chi annunciava di poter raggiungere obiettivi nettamente inferiori era un rosicone interessato solo alla sfascio ed alla distruzione.
Il clima creato (e perpetuato) di semplificazione imperante è stato una delle colpe più gravi dell'attuale Premier: cosa importa se chi ha provato a frenare facili ottimismi lo ha fatto per cosiddetto "buonsenso" e/o per inevitabile "realismo"?
La politica economica non si risolve tramite slides e ricerca tanto affannosa quanto disperata di consenso politico. Qualcuno, non troppo tempo fa, sostenne cose che con il tempo si sono (purtroppo) rivelate fragorosamente inesatte:
"[...] Le previsioni [su una crescita bassa dell’Italia] saranno smentite, lo scommetto. Ieri Moody’s ha detto che l’Italia puo’ crescere fino al 2%, altro che 0,5%. L’importante sono i posti di lavoro, tutto il resto sono solo chiacchiere dei politici. [...] Noi abbiamo abbassato le previsioni, sulla crescita del Pil, rispetto al governo Letta, perche’ vogliamo essere piu’ prudenti. Le previsioni sono una ‘mare magnum’ dove ognuno fa la sua previsione. Che sia lo 0,5% o l’1,8% non mi interessa, quello che mi interessa e’ che le persone trovino un posto di lavoro. [...]"
(Fonte: italpress.com)
L'Italia che rischia di emergere da cicli e ricicli di dichiarazioni simili è uno Stato nel quale l'istinto di estrema semplificazione venga portato in maniera continua agli onori della cronaca, un'Italia nella quale buonsenso e pragmatismo vengano derubricati a meri istinti di pessimismo e sfascismo.
L'Italia che rischia di emergere da un clima di semplificazione simile è un Paese governato da una classe politica che non ha abituato italiani ed elettori a seguire le ottiche dell'istruzione, della lungimiranza e della complessità per guardare alle varie situazioni che potrebbero ripresentarsi in futuro: uno Stato nel quale tutto è semplice ed immediatamente eseguibile, anche la ripresa economica.
Stante l'attuale insieme di situazioni ed istruzioni, purtroppo, questa missione sembra essere teoricamente già realizzata da tempo immemore.
A nessuno sembra importare invece generare un clima capace di "educare" il popolo ad una sempre crescente complessità dei tempi presenti, alle prospettive che potrebbero generarsi a fronte di un perdurare di indici di crescita e numeri economici non all'altezza.
Numeri non all'altezza per onorare tutti i gravosi impegni che pendono su questa Italia, quasi fossero affilatissime spade di Damocle: peso insostenibile del debito pubblico, necessità di garantire ammortizzatori sociali per la mole di disoccupati ed espulsi dal mondo del lavoro, urgenza di garantire fondi per salvaguardare un territorio in perenne e costante disfacimento, gravi interessi da onorare annualmente per ottemperare ai livelli di debito cumulato, urgenza di costruire politiche di mantenimento e riqualificazione industriale, [...].
Poco importa discutere di questi argomenti e della complessità necessaria da "manovrare" per provare a risolverli, l'importante è seguire uno strano "filo logico" che dovrebbe condurre pian piano verso l'uscita dal labirinto:
- riforme istituzionali da condurre in porto, ad ogni costo;
- stabilità del Governo per la definizione di un programma dei #millegiorni;
- impossibilitati ad essere tutto fuorchè "iper-ottimisti".
Chi si azzarda ad essere pessimista od almeno scettico viene preso quasi come eretico nei confronti del verbo imperante: se inaugurare il #cambiaverso non è chiaramente possibile per consolidati dati di realtà, può essere almeno lecito sperare in un #cambiaverso relativo a linguaggi e comunicazioni istituzionali?
Il futuro non sembra essere così roseo come il #cambiaverso vorrebbe far credere, a fronte di un differenziale netto su stime di (mancata) crescita che potrebbe sfiorare l'1% del PIL. A questo proposito è lecito porsi nell'ottica di porre una lung(hissim)a serie di domande sulla situazione macro-economica attuale: il rischio di avere una manovra finalizzata alla "revisione" delle stime fatte (e poi sbagliate) sta aumentando in probabilità?
Da quali voci di spesa poter trarre risorse utili a mantenere le (troppe) promesse fatte?
Sarà sufficiente una sola "spending review" dilazionata su tre anni fatta da un Commissario che sembra prossimo ad essere rispedito al mittente?
Dove trovare le risorse necessarie ad impedire un (ennesimo) taglio sulla carne viva del Paese, andando ad incidere in settori come Welfare, spesa pubblica utile e/o fondi per lo sviluppo? Attraverso quali voci di spesa garantire il rimborso esteso dei debiti della Pubblica Amministrazione, saldando il rimanente (> 60 mld Euro) entro i termini promessi?
Attraverso quali voci di spesa garantire il fondo di riequilibrio per le politiche ambientali, finalizzato alla riabilitazione di aree attualmente compromesse da inquinamenti e/o scelte sbagliate? A quali voci di spesa attingere per ricavare le risorse necessarie a ridurre i livelli di debito pubblico per rientrare nei parametri "concordati" con le Istituzioni Europee?
Da quali voci di spesa ricavare le cifre utili per onorare gli interessi cumulati sul debito italiano?
Quanti miliardi di Euro servirebbero per finanziare ancora il sistema di ammortizzatori sociali, specialmente per l'anno venturo 2015?
Quanti miliardi di Euro servirebbero per garantire il mantenimento (dato che l'estensione prima annunciata è stata poi pietosamente smentita) del "bonus 80" utilmente rivolto alla detassazione di una platea di soggetti deboli? Quanti miliardi di Euro è necessario trovare per provvedire alla decurtazione promessa delle tasse nei confronti del tessuto di pmi italiane?
Queste sono solo alcune delle possibili domande che si nascondono dietro alla banalizzazione di un perpetuarsi dell'attuale recessione tecnica: così come non basta un -0.2% a far gioire i "gufi", non sarebbe dovuto bastare neppure un +0.x% a far gioire i troppi ottimisti della domenica che continuano a calcare le scene in questi ultimi tempi. La situazione attuale richiede, per essere risolta al meglio possibile, una serie di obiettivi tanto collegiali quanto difficili da raggiungere contemporaneamente:
- "educare" e responsabilizzare un popolo alla maggiore conoscenza della complessità del sistema socio-economico attuale;
- consapevolezza di dover costruire un sistema a livello globale in cui rendere "strutturale" l'impossibilità di ricreare cortocircuiti economico-finanziari che scarichino violentemente le proprie negative conseguenze sulla "società reale";
- necessità di parlare maggiormente un linguaggio della verità, senza illudere od alimentare false e discutibili speranze per inseguire un'assetata ricerca di consenso e di gradimento politico.
E' su questi punti che il cosiddetto "renzismo" sta negativamente dilagando, giocando a ripetizione innumerevoli "carte" sbagliate.
La "spending review" non è sbagliata perchè sono stati "sbagliati" quelli che hanno provato a farla fino ad oggi; i tagli alla spesa non sono facili da compiere, in un Paese che ha radicalizzato la burocrazia facendola diventare parte integrante del sistema che dichiara (a parole) di volerla abbattere.
La difficoltà di predisporre politiche finalizzate a raggiungere indici di crescita economica (abbastanza alti per sostenere l'infinita mole di promesse fatte) è una situazione che non dipende solo da chi governa il Paese, amministrando quel poco che è possibile ottenere raschiando il barile di conti pubblici ormai al palo.
Non può essere lecito far credere che l'uscita da questa crisi sia "strutturalmente" raggiungibile in un'orizzonte di legislatura, inseguendo quei #millegiorni che dovrebbero (teoricamente) far svoltare il Paese in maniera duratura (e sicura).
Se questo Governo è la sola possibilità, non è detto che possa costituire l'unica speranza esistente: per svoltare davvero questa Italia dovrebbe (essere aiutata ad) abbattere definitivamente una lung(hissim)a serie di problemi che la rendono malata cronica.
Problemi che non dovrebbero essere ignorati. In alcun modo. Sembra essere questa una delle pecche più grandi e gravi diffuse fino ad ora dal "renzismo". La direzione di uscita prevede la necessità di agire ed impiegare parole forti su livelli istituzionali più elevati, senza perdersi annunciando al vento una rivoluzione che non riuscirà certo a costruirsi da sola: agire su livelli europei, pertanto.
Agire su livelli europei, smantellando costruttivamente quelle gabbie che l'Italia si è auto-imposta (grazie ad una classe tecnico-politica 'discutibile') sottoscrivendo trattati che potrebbero trasformare i terreni calpestati in campi minati e preclusi ad un futuro migliore.
E' in questo campo che Renzi dovrebbe convertire il "renzismo", imprimendo ad esso una svolta maggiormente propositiva e meno illusoria.
A questo discorso si ricollega estesamente quanto ha detto l'economista francese Fitoussi riguardo alla posizione assunta dal Governo italiano nelle opportune sedi continentali:
"[...] [La posizione del governoitaliano in Europa] e' quella giusta [...], fa molto bene Renzi a chiedere un allentamento dei vincoli per poter praticare politiche di crescita e mettere da parte le politiche di austerità. [...] allentare i vincoli e' una condizione necessaria ma non sufficiente: servono politiche di investimento per poter costruire un futuro dopo gli anni che si sono persi.
Per questo motivo [...] Renzi ha ragione, fa bene ad andare a Bruxelles e a chiedere queste cose.
Se vogliamo uscire dalla recessione l'unica via da percorrere e quella della crescita e degli investimenti. Naturalmente non sara' facile farsi approvare queste ricette dagli altri soci europei [...]. Ma Renzi deve andare avanti su questa strada. [...]"
(Fonte: agi.it)
La strada obbligata scorre attraverso queste battaglie, non di certo in quelle di facciata per concretizzare la candidatura di un "nostro" Commissario per gli Affari Esteri. Il peso di queste battaglie può e deve costruirsi realizzando riforme realmente figlie di un combinato disposto fra mediazione, rinnovamento e risparmio, senza inseguire chimere dalla assai dubbia utilità.
Il peso di queste battaglie potrebbe e dovrebbe concretizzarsi implementando un piano finalizzato alla realizzazione degli infiniti decreti attuativi che aspettano di essere realizzati per rendere attuabili decreti legge ufficialmente varati dalle Aule Parlamentari.
Il peso di queste battaglie non può però essere trascinato avanti annullando le complessità esistenti e mistificando la realtà; il prezzo da pagare può essere troppo grande.
Meno slogan e più analisi di realtà, appunto.