A piazza Vittorio le luci fluttuano, il Natale lo annusi dagli addobbi dozzinali che decorano le bancarelle sotto i portici, uno stereo con il volume fuori portata massima stona le note di un pezzo hip hop commerciale. Ho un appuntamento con un amico che non vedo da quindici anni, sono in anticipo di qualche minuto e non mi perdo lo spettacolo dell’umanità trascurata che produce i suoi traffici dietro gli angoli delle colonne, nei brevi spazi urbani che separano i muri dai cassonetti della spazzatura, tra la prima fila di macchine parcheggiate e l’ingresso dei giardini. È un circuito elettrico in perenne movimento compiuto sotto l’ombra imponente dei palazzi umbertini, in quella che (in pochi lo sanno) è la piazza più grande di Roma. Ormai passo di rado da queste parti, un tempo ci venivo spesso, in un ufficio qui vicino, in via Napoleone III, ho passato un anno della mia vita, l’anno di servizio civile che lo stato italiano mi ha rapinato al tempo della mia giovinezza. Era il ’96, e a quanto pare le cose, da queste parti, non sono molto cambiate. Quello che succede a un certo punto è qualcosa di strano e fuori dal tempo. Mentre affondo le mani nelle tasche del mio cappotto nero vedo passare accanto a me una donna ivoriana con un vestito di raso giallo e una vaschetta di plastica tra le mani. L’appariscenza del vestito stonerebbe in qualunque altro luogo della città, qui invece, nel tripudio multiculturale che distingue il quartiere, direi che il vestito passa quasi inosservato. Ciò che invece risalta è il fatto che la donna, con un gesto aggraziato e soave, dalla vaschetta di plastica sollevi con la punta delle dita delle piccole fragole rosse. Siamo in quella parte dell’anno in cui trovare delle fragole così rosse è pressoché impossibile, qualcuno dice che per far maturare le fragole d’inverno i produttori usino l’acetilene, altri sostengono che il segreto sta in un gene prelevato dai pesci che vivono nel freddo artico. In ogni caso le fragole devono avere un sapore spaventoso. La guardo meglio, la donna ha le labbra macchiate di un rosso così intenso da sembrare l’organo interno di un animale esposto nel banco di una macelleria. Do un’occhiata all’orologio e passo oltre. Venti metri più avanti c’è il banchetto di un venditore ambulante di dolciumi. Tra cartocci di caramelle di liquirizia, confetti gommosi e bastoncini, vedo un cesto di un rosso abbagliante. È pieno di fragole di zucchero. Sembrano piccoli baci, o suggelli di sangue.
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