(da una pagina buttata del “Onoranze Funebri”)
Le storie possono cominciare in tanti modi, con una nascita, con una morte, nel bel mezzo dell’azione o anche partire da lontano, con un “c’era una volta”.
Le storie possono anche cominciare dalla fine e poi tornare indietro.
Non c’è un modo preciso per iniziare una storia. E’ una libera scelta dell’autore, di quello che scrive, quello che muove la penna o che schiaccia i tasti.
Ma nella maggior parte delle storie si racconta sempre di un amore, o di un odio.
Io, quand’ero vivo, avevo una ragazza. L’ho sempre ricordata con gioia e continuerò a farlo ancora, nei secoli dei secoli, per l’eternità. Era una ragazza mediamente bella, mediamente simpatica, mediamente socievole, mediamente istruita. Era una ragazza come se ne trovano tante in giro.
Ma era la mia ragazza.
O forse, io ero il suo ragazzo.
In ogni caso era la ragazza che mi piaceva, oltre che la ragazza con cui stavo.
Lei mi ha sempre rimproverato questo mio essere sognatore, uno di quelli che usa le belle parole ma, com’è noto, le parole si spendono, mica pagano.
A quel tempo, devo ammetterlo, non ero un tipo molto convinto, piuttosto ero un tipo d’imbarcazione a vela senza timone nè remi: “si va se c’è il vento”; “si va dove porta il vento”.
E c’è anche da dire che la cosa non mi scuoteva minimamente; neanche mi lamentavo della mia condizione, anzi, a volte lo facevo perché m’istigavano altri.
Cose che non possono durare a lungo…
Poi successe tutto all’improvviso, il pub di via Eremo, quella canzone lenta e costante e Lei.
Lei.
Lei sì che era bella. Quando camminava si portava dietro altre mille parole. Se ti giravi verso di lei non sapevi dove guardare, rimanevi intimidito, quasi sopraffatto.
Non come raccontano in giro, la questione del fiato che manca, la storia negli occhi o stronzate del genere… no, lei si portava dietro una musica con cadenza perfetta. E tu che vedevi muoversi questa sintonia era come se avessi già capito senza bisogno di parole, senza bisogno di sguardi, senza bisogno di niente.
Evitò il bancone, evitò il jukebox spento, il telefono; evitò pure tutti gli sguardi che le si paravano davanti (e dietro) e si diresse alla finestra. La aprì e rimase un po’ ad occhi chiusi a sentire il vento che le strisciava addosso.
Dopo un po’ si girò, accese una sigaretta di quelle fini e lunghe, andò verso il palchetto, spinse via il tipo smilzo che suonava e schiacciò quanti più tasti poteva.
Le note del pianoforte si sparsero alla rinfusa nella stanza.
E tutti si fermarono.