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Ottobre

Da Paride

Giornata pesante, aria grigia, niente musica. Da un po’ di mesi è come se avessi ingoiato un macigno. Non penso a niente che non sia quello che devo fare o quello che non sto facendo. Non una riflessione che non sia un programma o un monito. Non sono mai presente. Neanche mi manco.
È arrivato un freddo tremendo, invernale. L’aria è gelida, tagliente; l’umidità ti bagna i vestiti. Non ho ancora capito come usare la nuova pompa della bici, e le camere d’aria sono al collasso, appiattite sotto una bustona di spesa e 54 kg di carne. Mancano pochi metri a casa, e taglio dai parcheggi, così mi sgravo per lo meno del carico d’ansia che la strada e le auto mi portano. È lì che guardo avanti, e vedo il cielo. E non per capire se c’è luce, se pioverà, o se sta passando un aereo. Vedo il cielo e basta, vedo il cielo per quello che è; e per quanto grigio, per quanto squallido, e triste, e vuoto; mi sento rassicurata, mi sento tranquilla, mi sento al mondo. Allora chiudo gli occhi e inspiro il ricordo di una vita fa. Di me che salgo a casa con i doposci, la tuta in vinile e un secchiello di neve. Mia mamma è in cucina, non la sento ma mi sta dicendo di andare ad asciugarmi. Fa veramente freddo, le mie calze, i miei guanti e i miei capelli sono zuppi di acqua ghiacciata; ma sorrido in un fiatone emozionato di mille storie inventante e troppe altre in lista. Elena mi ha detto che bisogna lavarsi le mani con l’acqua fredda e poi pian piano passare a quella calda, per evitare i geloni; ma a me i geloni non sono mai venuti e poi fa freddo, così, dopo un espiatorio secondo di acqua fredda – che non sento nemmeno, tanto sono intirizzite – lascio sciogliere il mio cuore in un brivido di acqua bollente, e sento il calore che scende giù per la spina dorsale, rilassando ogni piccolo muscolo della schiena.
Mia mamma sta preparando la cioccolata calda, ma non come nelle pubblicità, in un’aura di benessere prestabilito; la sta preparando con l’ansia, con la preoccupazione di chi si domanda quanto e come ogni suo piccolo gesto influirà sugli altri. Si chiede se fa bene a mandarmi a giocare nella neve con i cani, si chiede se mi sono asciugata bene i capelli che anche mia zia da piccola non si asciugava i capelli e poi ora già che è ancora giovane le fanno male le ossa, si chiede se la cioccolata è venuta bene, se è abbastanza densa, se ne voglio dell’altra, se i miei fratelli quando tornano a casa la vogliono anche loro, se ce n’è abbastanza, e se le nonne non scivoleranno, con tutta questa neve. Io sono concentrata sulle mie storie, sulla neve, sui cani, sulla cioccolata. Mi accoccolo contro il caminetto e avvolgo la tazza calda tra le mani. Accendo la tv e mi perdo nella commistione di mille mondi e per ogni mondo di mille visioni.
Riapro gli occhi una frazione di secondo dopo. Poggio la bici, strattono fuori a stento la spesa dal portapacchi. Cazzo quanto pesa. Con un piede puntello la bici contro il pilastro. Poi la chiudo in garage e arranco fino all’ascensore sotto il peso di chili di verdura biologica e ansia. A casa non c’è nessuno, il portone è serrato. Il silenzio mi riempie di quel vuoto ormai troppo scontato, che è ormai troppa parte di me. Credo di essere felice perché sola in casa, credo di dovermi sbrigare a mettere a posto la spesa in frigo prima che mia cugina torni con la sua. Credo di dover studiare, credo di voler cucinare, non credo di avere ancora fame ma credo che tra un po’ la fame stessa non mi darà il tempo, di cucinare.
Affetto i funghi sul tagliere. Soffriggo l’aglio, rosolo i funghi col timo. Mi riempio i polmoni di ricordi. Credo di essere ancora viva, ma non ne ho l’assoluta certezza. Accendo la tv e mi alieno dalla mia paranoia per vivere nell’univocità della visione parziale di un singolo mondo, altrui, che non mi tange.


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