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La neve cade pesante, è una sera d’inverno fredda e silenziosa. Il rumore del mondo rimane fuori, chiuso oltre la porta di legno. La luce che annega dentro l’acquario illumina il sottoscala, riflettendo un’onda molle sul pavimento. Bea dorme seduta sul divano, avvolta in una coperta di pile con i pupazzi. Ha pianto, prima di cadere nel sonno dei colpevoli. Il quaderno nuovo è ancora aperto, appoggiato alle ginocchia, sulla copertina c’è una grande mela viola, le pagine all’interno sono rosa, con i quadretti piccoli. La punta della penna, senza cappuccio, riversa il gel dell’inchiostro sull’angolo del cuscino bianco, in una chiazza che si allarga lenta sul tessuto. Quattro pagine scritte fitte e un centinaio ancora da riempire. Bea non ha mai tenuto un diario, anche se ci ha provato a lungo. Non aveva il coraggio di raccontare quello che le avevano fatto, eppure sentiva il bisogno di metterlo da qualche parte, di dare una forma alle immagini che si muovevano ansiose nella sua testa. Con il passare del tempo smise di pensarci e le sembrò che tutto andasse bene. Sono trascorse tre settimane dal 14 gennaio, ventuno giorni in cui ha cementato il dolore e lo ha ficcato duro dietro il cuore. Fino a non poterne piu’. Respira piano, nel sonno. Un minuscolo fischio esce dalle labbra socchiuse, ha il naso tappato dal raffreddore. Si vede che soffre, la piega che ha sulla fronte sembra una crepa nel ghiaccio. Si sveglia che è appena l’alba, l’orologio del forno segna le cinque. Tra un’ora e un quarto suonerà la sveglia, tra due dovrà infilarsi veloce sotto la doccia e poi inizierà una corsa senza sosta fino a sera. Leo, la scuola, il lavoro. Stira le braccia e scivola in basso, scendendo sul fondo del divano. Alza la coperta sulla bocca e si mette a guardare i pesci. Nuotano piano, come se dormissero. Si spostano dritti, seguendo un immaginario filo d’Arianna che li porta a sfiorare il filtro, prima di scendere verso la colonna spezzata, viscida di alghe. Sono rimasti in tre, erano cinque. Il piu’ piccolo, una carpa giapponese coi baffi lunghi e la coda rossa, ne ha uccisi due. Il pulitore, bocca a ventosa incollata al vetro, li ha finiti, mangiandoli sulla schiena. Rimane un tricoda nero, con gli occhi sporgenti e tondi. Forse è malato, ha un colore sbiadito, sembra spento. Bea pensa che dovrebbe isolare la carpa, comprare una boccia di vetro e mettercela dentro. Farla morire di fame, per punizione. Non ne ha voglia, il travaso da una vasca all’altra comporta impegno, e lei, ora, non regge nessuna fatica inutile. Il medico le ha detto che è normale, che ci vuole tempo. Lei non ci crede, ma ci spera. Ha freddo ai piedi, li osserva come una bambina, le unghie sono ciliegie ammaccate, il rosso dello smalto si è scheggiato. Deve fare la pedicure. Ha un neo sull’alluce sinistro, è suo, nessun altro ne ha uno uguale. Quando morirà si fa seppellire senza scarpe, così guarderà i piedi, belli e regolari, e le unghie laccate di fresco, per l’eternità. L’acqua della doccia è bollente, non c’è sofferenza nel battere d’aghi sulle spalle. China la testa in avanti, curvando la schiena quel tanto che basta per arrivare a guardarsi l’ombelico. Non è bello, il suo ombelico, è orizzontale, un po’ schiacciato. In fondo non è colpa sua, è stata l’ostetrica dell’ospedale a tagliarlo così, a fargli prendere quella forma che è nulla. Lì sotto c’era la sua bambina. Ora non c’è piu’. Nevica, esce fuori in sottoveste. È neve fresca e soffice, ancora umida. Pizzica sotto i piedi, come ghiaccio secco sulla lingua. Il cielo è scuro, si vede la luna alta oltre i tetti delle case. Sui campi risplende il chiarore naturale dell’inverno, che imbianca e sommerge. Bea cammina sul vialetto, preme i piedi a fondo, si muove sui sassi appuntiti del cortile. Fa su e giù, lascia impronte che formano parole e disegni. Il giardino è scomparso, non c’è confine tra il porfido del marciapiede e l’erba sottile, ancora acerba. Si spoglia, nel buio di una notte che sta per finire. Appende la sottoveste all’omino degli scuri, che penzola nel vento. Seduta sulla neve fredda ha un brivido. Piega le ginocchia, le mette in bocca, ci posa sopra le labbra e soffia un po’ di calore. I capelli lunghi cadono in basso, coprendo viso e schiena. Distende le gambe, allungandole su una scia che scopre il verde dell’erba, apre le braccia, le lascia cadere all’indietro, sopra la testa, mentre abbassa la schiena. È sdraiata a terra, nuda. La neve cade. Sono gocce morbide che l’accarezzano. Frammenti di cielo ghiacciato che si sciolgono sul tepore timido della pelle, prima di evaporare. Respira e respira ancora. Bea si sente pulita, nel biancore immacolato di una natura che continua e va avanti, contro ogni volere. È una bambina che torna a essere pura, una creatura che non ha passato, senza lordure nel cuore. Resta immobile, supina sull’erba innevata. Resiste fino alle prime luci dell’alba, ci sono chiazze di neve sul rossore freddo delle gambe. Trema, i denti battono senza che possa fermarli. Brividi e pelle d’oca, spasmi e lacrime. Il corpo si abitua a tutto, basta allenarlo. Deve temprarlo per poterlo poi punire. È scoglio in mare, duro e dritto, immobile. Arriva tempesta e resiste. Solo così può andare avanti. Senza il dolore morirebbe. Ama il suo dolore, che è libertà e forza e sopportazione e pace. Rientra solo quando sente rumori di risveglio provenire dalle finestre dei vicini. Non vuole che la vedano così, che pensino che è pazza. Ognuno è padrone delle proprie paure e le combatte come meglio crede. Bea lotta a modo suo e non se ne vergogna. Vuole solo che non ci siano fraintendimenti, pensieri sbagliati. Non tutti gli esseri umani sono in grado di comprendere i sentimenti dei propri simili, non tutti possono sostenere il peso di una realtà diversa. Fa un’altra doccia, l’acqua calda punge, non sa se sedersi sul piatto di ceramica o posare la schiena alle mattonelle fredde. Si gira e cambia posizione, veloce, per fuggire al calore costante del getto. Passa bagnoschiuma e shampoo, osserva la parete di plastica trasparente appannarsi, mentre lascia scorrere l’acqua nel vuoto della sua fuga. Oscilla sui piedi, sorride. È viva e, anche se fa male, fa meno male di ieri. Ogni giorno che passa s’indurisce. Si asciuga con calma, non ha fretta. I capelli si gonfiano di calore nel soffio scostante del phon, li liscia con la spazzola, sono cresciuti tanto. Non li taglia, anche se dovrebbe togliere le doppie punte, li vuole lunghi, che coprano e proteggano. Scuri, con qualche striatura grigia. Li tinge una o due volte l’anno; guarda i capelli bianchi spuntare, crescere, allungarsi. Sono lì e le piacciono. Le raccontano dei problemi che ha dovuto affrontare, dei pensieri che hanno ammazzato i sogni la notte, delle paure che ha preso a pugni e messo al tappeto. Non è ricrescita bianca, solo qualche capello grigio qua e là. Entra in camera da letto e si veste. Biancheria nera, calze nere, abito nero, corto e aderente, giacca di lana nera, con un fiocco da annodare sotto il seno, stivali scuri, tacco alto. Bea è nera, fuori. Sempre, da anni. Non ha colore, e questo la fa sentire bene. È lei, finalmente. Esce a fare colazione. Jack ha un debole per lei ma Bea non lo incoraggia troppo, nemmeno lo disillude. Bea gioca, continuerà fino a quando non capirà che il limite è vicino, troppo vicino per non ferirlo. Parcheggia accanto al marciapiede, cerca il portafoglio nella borsa, tra le salviettine umidificate e la mascherina dell’ossigeno (che non usa dalla sera del 19 marzo 2009, ma porta ancora con sé). Scende e saluta il benzinaio. Un suv è in manovra, la donna al volante indossa grandi occhiali da sole firmati, con le iniziali dorate sulle stanghette. Pelliccia e tanto trucco in faccia, rossetto eccessivo su labbra di plastica. Bea scuote la testa, ride tra sé, entra in bar. Jack la vede e subito sorride il suo sorriso dolce, con la piega della bocca leggermente verso l’alto che fa solo per lei. Bea si siede sullo sgabello, Jack si avvicina, le prende la mano e la accarezza, prima di posarci sopra un bacio pudico. Le prepara la colazione con amore, come fossero nella cucina di un’ipotetica casa, da soli. Sfiata l’aria calda dell’acqua, scalda il cornetto ai frutti di bosco in un minuscolo fornetto che s’illumina tutto di rosso, ci mette sopra un po’ di zucchero a velo fresco, morbido e volatile. Versa l’acqua nella teiera e ci immerge dentro una bustina alla vaniglia, la preferita di Bea. La muove piano, in un moto circolare che alterna il senso orario a quello antiorario. Apre la bustina di zucchero e la rovescia nel fondo della tazza, poi ci versa dentro il tè. Mescola, gira il cucchiaino, sbattendolo appena sulle pareti di ceramica. Mette tutto su un vassoio e glielo porta. Non c’è più nessuno attorno a loro, i pochi che entrano Jack li manda via in fretta, un caffè veloce, niente chiacchiere da barman, nessun sorriso che incoraggi a restare. La guarda mentre mangia, osserva le sue labbra muoversi sul cornetto, imbiancarsi di zucchero come foglie sulla neve. Le loro ginocchia si sfiorano, indugiano in un contatto che non ha la stessa forma. Per Bea è calore umano, per Jack è già eccitazione. Bea non ha mai spogliato Jack, non gli ha mai offerto il sollievo delle sue mani. Si guardano a lungo, lui parla, lei ascolta. Poi è il turno di Bea di parlare e quello di Jack di ascoltare. Quando lei si alza per andarsene, lui le afferra il braccio e la stringe forte a sé. È un abbraccio morbido, caldo e denso. Lungo, più del dovuto. Bea sta bene tra le sue braccia, nel contatto di un corpo a cui non deve nulla. Un abbraccio per lei, per il suo viso, per i suoi capelli, per le sue parole, per i suoi occhi. Sa che Jack la spoglierebbe e la prenderebbe, basterebbe un cenno di capo e la farebbe sua, senza esitazione. Non lo fa, per rispetto. Bea lo guarda attraverso il vetro del locale, alza una mano e la muove piano, come una bambina che saluta le nuvole in cielo. Sorride e pensa che Jack si merita molto di più di due mani senza voglia. Si merita una donna intera, quella che lei, senza Alberto, ora non vuole essere.
Barbara Greggio
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