Come nebbia ogni cosa si dissolve. La distanza è il metro del tragico, la stanza è il luogo della poesia, ( “la cameretta di Petrarca e di Leopardi” ) o la piccola casa di Beppe Salvia ( poeta lucano morto suicida a Roma a soli trent’anni, nel 1985 ), il quale chiude una sua poesia con questi bellissimi versi: “Io amo la mia casa perché è bella / e silenziosa e forte: sembra d’aver / qui / nella casa un’altra casa, d’ombra, / e nella vita un’altra vita, eterna”.
Il recupero del senso primario e fondante del “luogo” inteso come ciò che delinea un orizzonte unitario del proprio vivere, una fermentazione delicata dove alla coscienza spetta soprattutto lo stare in ascolto esercitando un’ardua “passività attiva”, costituisce da sempre uno dei temi fondamentali dei poeti. Essi tentano di dar forza al proprio presente rievocando intorno a sé una costellazione di voci, lontane e vicine nel tempo e nello spazio, nelle quali possa risuonare una pluralità di riferimenti riconoscibili, ancor più nei periodi di feroce disgregazione e/o omologazione. Un’esperienza che si gioca fra solitudine ( “Or sulle mani / mi respiri tu / solitudine / lenta fatica d’amore”, scrive Antonia Pozzi ) e consonanza, tra ascolto silenzioso e amicizia.
Fra gli appunti di Beppe Salvia leggo questa riflessione: “cara virtù io ti ho regalato senza saperlo le mie ore più belle”. E la virtù non è una vana ombra, ma tutte queste cose insieme. La virtù è anche la ricerca senza posa della verità che si oppone all’ideologia. E’ tutto il credito che il poeta dovrebbe eternamente assolvere nei confronti dei suoi contemporanei. Ancor più perché, a mio avviso, fare poesia è manifestare la forma di un pensiero negato, un modo di pensare il linguaggio come un percorso attraverso cui “ogni parola abbia un sapore massimo”, e al contempo “Essere nulla per essere al proprio vero posto nel tutto”, per dirla con Simone Weil.
La poesia è una forma d’arte senza prese certe e saperi prestabiliti, che gioca tutto sull’aleatoria instabilità di quel che appare più saldo, e insieme sulla certezza che anche un vuoto diventa, a volte, un buon punto d’appoggio. Il poeta è il funambolo ( citando la definizione di Kant in una nota della Critica del giudizio ), tende all’anarchia; pone continuamente in crisi il reale, rivolge il proprio discorso verso ciò che non può sapere, lo apre all’estraneità. Egli si illumina di memoria storica, è un acrobata che si destreggia fra passato e presente. Nel suo coraggioso viaggio non può perdersi, né abbreviare la propria strada perché la sue sono lacerazioni tutte interiori, graffi sulla mente, sull’anima, “angelicata e nera”. Il tempo del poeta è il tempo della lentezza, dell’intuizione che anela faticosamente a diventare comunicazione al fine di renderci “consapevoli”, non a evadere dalle responsabilità storiche. È il tempo del vissuto che si scontra col limite della morte oscuramente prevista. Cito in proposito versi di Dario Bellezza: “Non merito aiuti né misericordie. / Cantando la scena ai gatti in casa / mia, rivolgo all’Assente il vangelo / di una rosa rossa; portiamola / alla vita che è passata, o al cuore che non batte più”.
Dunque, ancora poesia – casa, nonché intima connessione fra vita e morte, responsabilità verso coloro che sono morti attraverso una sorta di riscatto, l’unico possibile per il tramite della parola.
Parallelamente, la poesia è l’unica prova concreta dell’esistenza dell’uomo, vale a dire che la percezione della poesia avviene nella storia, la storia viva e difficile dei poeti e del loro destino, nella pratica e nelle difficoltà quotidiane della scrittura, nella particolarità irriducibile del fare e dell’accadere. Un raggio di versi per ogni storia, senza la sovrabbondanza culturale e la paura delle affermazioni semplici che talora risultano fatali alla poesia. Tutto in funzione del criterio dell’utile. “Penso”, diceva Nazim Hikmet, “che la poesia debba essere innanzitutto utile…utile a tutta l’umanità, utile a una classe, a un popolo, a una sola persona. Utile a una causa, utile all’orecchio…”.
Perciò il poeta deve provare a investire musicalmente l’atto dell’ispirazione, senza ridurlo a semplice “aurorale” ineffabilità, senza diffidare del proprio pensiero e scrivere solo in stato di “sonnambulismo”. Eliot ad esempio non aderì ai fautori dell’arte per l’arte e, contrariamente a Yeats, non veleggiava affatto con la sua poetica verso una Bisanzio della forma perfetta e congelata. Eliot aspirava ad essere un poeta – interprete comunicando con il lettore “non direttamente”, bensì creando degli “obiectjve correlatives”, come scrive Czelaw Milosz nella sua introduzione a La terra desolata – Quattro quartetti a cura di Angelo Tonelli.
“Poesia oggettuale” si potrebbe dire, che induce il poeta più che a raccontare ciò che pensa e sente, a mostrare oggetti associati a determinate esperienze. Nel caso di Eliot un paesaggio di versi fatto di grigiore, alienazione, fogne maleodoranti, bottiglie rotte, strade londinesi con passanti che sembrano più ombre di morti che vivi, alias la città infernale descritta prima da Blake e poi da Baudelaire. La città infernale, aggiungerei metaforicamente, che è fuori di noi, ma talora anche dentro di noi.
Ma Eliot è anche interprete della poesia religiosa ( grandezza della complessità! Cristallizzarsi in una posizione unica è rinunciare per sempre alla spinta, alla guerra-armonia fra i contrari di cui parlava il filosofo greco Eraclito ). Nel capolavoro dei Quattro quartetti ( 1942 ) egli tenta di dimostrare che l’immaginazione, che si incarna a suo dire nella poesia religiosa, può, nello sfacelo del mondo odierno, riconquistare i suoi privilegi e tentare di costruire qualcosa dall’impossibilità, dall’assenza, dalle rovine. Mi viene spontaneo un riferimento a un’altra voce femminile della poesia italiana del secolo scorso, Cristina Campo, alla sua Tigre assenza, poesia scritta in memoria dei suoi genitori, agli ultimi bellissimi versi: “la Tigre assenza, / o amati, / non divori la bocca / la preghiera”.
Al destino di dissolvimento cui tutte le cose sono condannate, solamente “la bocca” può osare di resistere, la possibilità del “canto”, “la pietà del verso” che possiede la forza di preservarsi dal disfacimento per diventare “preghiera”. E aggiungo, sul filo del paradosso pascaliano, ancor più al giorno d’oggi in cui lo “stordissement” tenta prepotentemente di tagliare le ali al pensiero, agli “uccelli dell’anima” che si fissano su figure immaginate – e chissà quanto reali? – : “Un sepalo ed un petalo e una spina / In un comune mattino d’estate, / Un fiasco di rugiada, un’ape o due, / Una brezza, / Un frullo in mezzo agli alberi – / Ed io sono una rosa!” (E. Dickinson – poesia del 1858 )
Mi piace credere, senza ombra di retorica, che la poesia esista per poter pensare nobilmente all’umanità, per vedere il cielo affollato e coglierlo tutto in un abbraccio, “con tutte le stelle alle mie spalle, immerse in una sfera di pensiero”, citando Walt Whitman.
Bibliografia
Beppe Salvia, Un solitario amore, a cura di Giacomozzi F. ; Trevi E., Fandango libri, Roma, 2006
Antonia Pozzi, Poesia che mi guardi, a cura di Graziella Bernabò e Onorina Dino, Luca Sassella editore, Bologna, 2010
Simone Weil, L ’ombra e la grazia, traduzione di Franco Fortini, Bompiani, Milano, 2002
Emanuele Kant, Critica del giudizio, Bompiani, Milano, 2004
Dario Bellezza, Diario di un mostro, a cura di Daniele Priori e Massimo Consoli, Anemone purpurea editrice, Roma, 2006
Nazim Hikmet, Poesie, introduzione di Joyce Lussu, traduzione di Joyce Lussu e Velso Mucci, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma , 2005
Thomas S. Eliot, La terra desolata – Quattro quartetti, introduzione di Czeslaw Milosz, traduzione a cura di Angelo Tonelli, Universale Economica Feltrinelli, Milano, 2006.
Cristina Campo, La tigre assenza, a cura di Margherita Pieracci Harwell, Biblioteca Adelphi, 1991
Emily Dickinson, Poesie, introduzione, traduzione e note di Margherita Guidacci, Classici BUR, Milano, 2001
Walt Whitman, Foglie d’erba, introduzione, traduzione di Igina Tattoni, Grandi Tascabili Economici Newton, Roma, 2007