"Portano le malattie, non toccarli" - dice la mamma al bambino che allunga la mano verso il loro becco quasi nervoso, sempre alla ricerca di un seme o di qualche altro scarto caduto dalle tasche dei passanti di piazza del Duomo. Alcuni li tengono tra le mani per fare fotografie, altri li maledicono, colpiti inesorabilmente dai loro escrementi che piovono ogni giorni a tonnellate sulle nostre teste. Non fanno quasi nessun verso e, ormai, si sono abituati a vivere per le nostre strade, quasi incuranti delle nostre scarpe coi lacci e delle nostre ruote piene d'aria. Talmente abituati che, talvolta, se ne riconoscono i resti in uno sparuto gruppo di penne, pressate qualche ora prima dalle gomme dei pneumatici.La mattina, pedalando fino alla metropolitana, talvolta ne incontro qualcuno. Ogni volta, dispettoso e infreddolito, mi diverto a vedere quanto in ritardo si spostino al mio passare, rischiando ogni volta un pelo di più in questo sciocco gioco di morte. Quando sono in un piccolo branco (mi si passi il termine improprio, dato che "stormo", per questi ratti con le ali è sin troppo lusinghiero), cosa che è a dir poco frequente, accade che il primo, quello più prossimo alla mia ruota anteriore, poco prima dell'impatto, si alzi in volo, sgraziato, muovendosi di qualche metro a lato. Questo sbattere d'ali, pur nel furibondo caos della metropoli cui sembrano immuni, innesca come per magia, un movimento analogo nel resto della ciurma. Come un segnale. Ecco che tutti, allora, anche quelli che, più lontani, davvero non dovrebbero sentirsi minacciati, decollano improvvisamente per poi posarsi qualche metro a lato.L'avrete visto, qualche volta, anche voi. Di sicuro. Suppongo sia qualche timido esercizio di un istinto di sopravvivenza un po' castrato, tipico di uomini (e animali) che vivono in società addomesticate.La sera, quando torno a casa dal lavoro, prendo sempre la metropolitanta. Per essere precisi, occorre dire che salgo sul convoglio al capolinea. I treni, nell'orario in cui di solito esco dall'ospedale, sono abbastanza frequenti. Se proprio succede di perderne uno, per incuria o per sfortuna, basta attendere qualche minuto ed eccone subito un altro identico al precedente, completamente vuoto e accogliente, pronto a farsi gremire di uomini e donne stanchi e annullati, che non vedono l'ora di spalmarsi sui loro divani dopo aver cucinato surgelati indicibili. Sono tutti un po' grigi, a Milano, a quest'ora della sera.
Per accedere al binario, si sa, bisogna salire una lunga scala. Nei giorni in cui scrivo, per giunta, la scala mobile a fianco è guasta e, quindi, tutti si trovano a far affidamento soltanto sula forza delle loro stesse gambe. Questo dettaglio, che mi rendo conto può apparire superfluo a questa storiella che pure ancor non si capisce bene dove voglia andare a parare essendo partita da grigi piccioni per arrivare a grigi pendolari, e già la prima analogia si intuisce, è in realtà fondamentale. Occorre soltanto avere un po' di fiducia.La suddetta scala, dicevo, risulta quindi ragionevolmente affollata. Eppure, proprio per la sua sostanziale verticalità, elemento di fatto insito nell'essenza stessa della scala dato che essa fonda il suo scopo e quindi la sua esistenza, oltre che la sua semantica, proprio sulla possibilità che hanno gli uomini che la utilizzano di scalare e quindi di salire, essa permette di scorgere, intenti a fare un passo dopo l'altro, sui gradini più in alto, i nostri futuri (così si spera) compagni di carrozza. E non è certo per un invincibile desiderio bagnato di sedersi proprio accanto a loro, con quelle facce poi!, fatto salvo per chi ancora provi a cercare sui mezzi pubblici l'anima gemella o una compagna di una notte, che quando essi attaccano ad accelerare il passo, in corrispondenza degli ultimi gradini, per poi mettersi letteralmente a correre, tutti quelli dietro cominciano a fare altrettanto, rendendo la scena insolitamente simile a quegli spezzoni di telegiornale provenienti da oltreoceano in cui uomini di età variabile, alcuni antichissimi e quasi centenari se ben ricordo, si accingono a correre su e giù, senza scopo apparente, i piani di vertiginosi grattacieli newyorkesi.Il vero scopo, invece, il più delle volte, immagino sia quello di non perdere proprio quel treno che si ipotizza fermo in banchina ad attenderci, disposto ad aspettare solo qualche secondo ancora il nostro ritardo. Il che, non il ritardo, ma il fatto stesso di prendere proprio quel treno (che, a guardar bene, non è menzionato nella frase qui sopra rendendo quindi l'espressione "il che" un po' fuori luogo, ma a questo punto, dopo questa spiegazione, accettabile) si presuppone con una buona dose di approssimazione, inneschi una cascata di eventi temporalmente e causalmente legati l'uno all'altro e solo molto parzialmente dovuti alla nostra volontà, che comprendono l'arrivare in tempo alla coincidenza con il tram, lo scendere prima alla fermata vicino a casa, il mettersi in cammino con la stessa velocità per quelle poche centinaia di metri che ci separano dal portone, il prendere l'ascensore qualche minuto prima, infilare la chiave nel portone di casa, togliere le scarpe e aprire il frigorifero. Tutto fa capo a quel primo, unico momento in cui ci troviamo su quella scala, ad arrancare per il nostro posto su quel treno. Corriamo, pur senza motivo apparente, pur non avendo magari alcuna fretta, perchè quello, di tutta la nostra giornata, è forse il primo momento in cui possiamo esercitare la nostra volontà. Correre su quella scala è un esercizio di libertà.E così, via tutti a correre, come fosse una gara. Eccola, la vera Stramilano che si consuma quotidianamente nel sottosuolo. Spesso, quasi senza accorgermene, mi trovo a correre anche io. Con i bottoni della giacca che tirano rischiando di esplodere, la borsa che sbatte qua e di là e l'indice infilato tra le pagine del libro di Saramago che ho preso a modello per decidere di scrivere in questa maniera sconnessa le frasi che state leggendo.La morale, per chi non ci fosse arrivato perchè con la testa tra le nuvole data l'inevitabile noia che ho suscitato in coloro che sono arrivati sino alla fine di questo post, è che siamo tutti piccioni. "O forse no", mi trovo pensare alla fine di questa storiella, il che rende il concetto di "morale" quantomeno improprio, dato che essa a tutto si presta meno che a essere messa in discussione. Mi dispiace, ma spesso la scrittura così: si parte con un'idea concisa, che richiederebbe due frasi stringate e si arriva a scrivere un panegirico senza nemmeno ricordarsi da che cosa si è cominciato. Ah si, i picconi!




