Francesca Del Moro - Le conseguenze della musica - Cicorivolta Edizioni, 2014
Avevo già avuto modo di parlare di Francesca Del Moro a proposito del suo precedente libro "Gabbiani ipotetici" (v. QUI). Un libro che avevo definito discontinuo, con i suoi alti e bassi, ma complessivamente positivo, specie se lo si guardava nella prospettiva di uno sviluppo ulteriore. Anche lì c'era, tra gli altri, il tema dell'amore e dell'abbandono che poi è venuto a coagularsi in questo secondo libro. Ma è difficile parlare d'amore. Perchè è un tema vecchio come il mondo, che però vorremmo almeno che ci venisse raccontato con parole "nuove". E questa è già una bella contraddizione in termini. Inoltre poche cose sono egocentriche come l'amore e la difficoltà di parlarne sta in parte in questo, nel cercare di superare questo egocentrismo, anzi questo egotismo, di superare, anche nel linguaggio, quello che, su entrambi i versanti di chi scrive e di chi legge, crediamo di sapere, crediamo di poter dire. Giacché - e questo è un altro problema - l'amore è anche uno dei temi più soggetti all'omissione, all'autocensura, alla tentazione di assoluzioni, alla oscillazione tra cordoglio e euforia, a una sua connaturata discontinuità. Esposto insomma alla costruzione di una personale "verità". Cose su cui generalmente non ho niente da eccepire, se non fosse che spesso sono causa di altri problemi, come ad esempio lo scivolare in ciò che Francis Bacon, l'artista, in alcune delle sue sporadiche dichiarazioni chiama l' illustrazione o la decorazione, due cose che all'arte sono abbastanza antitetiche. In "Gabbiani" tutto il tema sentimentale, della mancanza, dell'assenza non risarcibile era esposto in una maniera che avevo trovato interessante, con una veemenza tra la rabbia e l'ardore, e con un senso della sconfitta onorevolmente combattivo. C'erano tanto per capirci alcuni testi di una straordinaria "cattiveria", come ad esempio Al mio ex marito e alla sua nuova moglie senza rancore oppure Preghiera o ancora Appena ho un momento libero (potete leggerli nel post citato). In essi il linguaggio, volutamente discorsivo e "naturale", era tutto finalizzato alla valorizzazione di valori primari, istintuali, non mediati più di tanto, ed insieme era controllato ma giungeva non a prendere atto cronisticamente dei fatti ma a fare di essi qualcosa di non razionalizzabile, qualcosa di poeticamente irragionevole, come deve essere la poesia. Tornando a quanto dicevo prima, in quei testi Francesca non illustrava i fatti, non li decorava, anzi li spogliava a dramma umano, per quanto personale, restituendoli a una necessaria "crudeltà". Dico questo perché "Le conseguenze" mi sembra complessivamente un passo indietro riguardo a quella capacità di gettare nei testi anche una certa violenza espressiva ed emozionale, di scrivere con lo sguardo doloroso ma fiero rivolto in avanti, non ripiegato. Non discuto né della "onestà di scrittura" né della "trasparenza dell'autrice", per citare l'affettuosa postfazione di Martina Campi. Non discuto della personale "verità", o della profondità del dolore o del sentimento, nè da quale eco provenga e quanta eco possa fare in chi legge, tutte cose massimamente rispettabili. Ma che viaggiano (o rischiano di viaggiare) su un binario diverso da quello della loro resa espressiva. Mi limito a constatare, a mio avviso, un complessivo raffreddamento della espressione poetica, cosa che è diversa dal grado di "sensibilità" (concetto quanto mai vago) da cui quella espressione ha preso le mosse. Se non è lecito - per fare un piccolo esempio - dubitare della "verità" (personale) implicata in versi come questi: "Chissà se lui sente / la carezza dei miei occhi / sulla sua schiena / ogni volta che esce", è però legittimo dire che una verità personale rimane, anche se si volesse tentare di farne una "immagine gentile" - per usare parole di Francesca - ad uso del lettore. Analogamente, in un testo come Segno il percorso fin qui (v. sotto) - che peraltro mi ricorda certe cose di Sylvia Plath - si capisce bene e si può certo condividere la carica emozionale e dolorosa che lo alimenta ma mi pare inevitabile registrare, specie nella seconda parte, almeno due note di fondo, un evanescente patetismo, un passivo compianto, una vocazione ad addossarsi la "colpa", molto lontani dalle poesie di "Gabbiani" che citavo e presenti qui invece in diversi altri testi. Poi certo l'autrice è capace di ironia e autoironia come in Stupido, di raccontare un dolore anche più profondo come in Ho pianto tanto tanto e tanto o in Pensiero assurdo, perché Francesca, se vuole, strumenti ne ha a sufficienza. Capisco quando dice, anche qui flagellandosi, di essere "un cliché / come del resto, hanno detto, / le cose che scrivo", ma mi sento di respingere con forza questa affermazione. O quando dice sconsolatamente "mi fermo. / Non vale la pena scrivere / di questo non vivere". La preferisco quando afferma "Scrivere qui / è quel che mi resta / ma mi sento un po’ meglio". Certo, la poesia non può essere solo un'attività consolatoria, qualcosa di catartico, come è convinzione di troppa poesia femminile, o elaborazione del lutto. Ma scrivere vale sempre la pena, e continuare a scrivere bisogna. (g.c.)Seduta nella sala d’aspetto
tengo il libro sulle ginocchia
e ci sprofondo, e sogno.
Bisogna fare di necessità virtù
perché in questo bar il caffè sa di topo
e le paste sono vecchie di due giorni.
Di certo assomiglio più alla ragazza
che si affanna per le vie di Milano
che a lui che la segue
con la telecamera dei versi.
Mi strapperei la pelle di dosso
per essere solo per quel giorno
uno dei poeti che avranno la sua musica
e non possono sapere cosa significa
così bene come lo so io.
Mi ha respinto sempre
così elegantemente,
con la mano che mi allontanava
e sembrava farmi una carezza.
***
Hai combinato un casino
e ora tutta questa gente
rischia di far tardi
ai festeggiamenti di Halloween
e infatti uno si lamenta
al bar mentre canticchia
una canzone dei Negramaro
che stanno mandando e mi costringe
a fare considerazioni sul rapporto
tra certa musica e certi pensieri
o viceversa, come il viceversa
della farfalla e l’uragano
e cioè il tuo uragano e tutte le farfalle
che ora sbattono le ali
coi frenetici telefoni incorporati
impazienti sbuffanti in attesa in ritardo
in così tante città, una folla da concerto
non dico da omelia papale
da concerto un po’ indie e tu alla fine
hai il tuo momento di gloria,
anche se ti hanno appena chiamato
inconveniente sulla linea.
***
Vorrei che tra di noi ci fosse
ancora solo una parete
e come allora ascolterei
il vostro silenzio al di là,
con braccia e lacrime pronte.
Ho anch’io un respiro in attesa
col vostro e con il suo respiro,
fermo vicino alla porta
per metterle appena in tempo
il mio amore nella mano
subito prima che vada,
come una cosa dimenticata.
***
Segno il percorso fin qui
non c’è alcun traguardo
e prima di tornare indietro
mi fermo.
Non vale la pena scrivere
di questo non vivere.
Non saranno le parole
a tirarmi fuori da questo
buco nero, non era neppure
una stella magicamente
implosa, no, era una bocca
sdentata che si apriva
a deridermi, non ho saputo
essere tutto per qualcuno
ho provato a essere qualcosa
per alcuni ma ho sempre saputo
di non essere una donna normale
semplicemente non funziono
come le altre donne, un perché
mi sarebbe d’aiuto, ma non c’è,
semplicemente sono un rifiuto,
un errore, uno scarto, trattenuta
dalla sua manina che cresce
non posso nemmeno fare
l’ultimo passo.
***
Anche la casa è sorridente
perché tu ci sorridi dentro
sempre,
e quando rientro
tardi alla sera
e vedo il pavimento
che sembra una pattumiera
devo sforzarmi
di tenere strette le labbra
e anche se ne sono fiera
devo accigliarmi
se scrivi un tema
intelligente e coraggioso
e citi la costituzione
però ti prendi una nota
dal professore
non posso mica sempre
riempirti d’amore
e scusarti perché
hai preso tutto da tua madre,
non è certo educativo
riderci sempre su,
lo sai che mi devo arrabbiare.
***
Stupido,
tu che provi a trasformare
la tua insignificante materia umana
in musica poesia pittura
scultura opera teatrale
performance video graffito
romanzo architettura film
disegno danza fotografia
o qualunque cosa
presuntuosamente
chiami arte.
Dai che lo sai
che sei ansioso di creare
qualcosa di bello perché
ti sei guardato allo specchio
e/o ti sei guardato dentro,
dentro a cosa poi,
e ti sei fatto schifo.
Dai che lo sai
che ci sarà sempre qualcuno
che ti arriverà alle spalle
e ne riderà
e poi si rimetterà a parlare
di cose serie
tipo che prepari per cena
e tu come lo cucini il cavolfiore
e mamma che traffico che c’era
e il bimbo è nato e quanto pesa?
Dai che lo sai
che ci sarà sempre qualcuno
che di fianco a te
leggerà la pagina cultura
del Corriere della Sera
e ti guarderà di sbieco
e si chiederà ma perché diavolo
continui a fare queste cose
che ovviamente non sai fare
perché lì non ci sei
e a dire il vero non ci sei
da nessuna parte
a parte sulla tua pagina
facebook e poco altro e quindi
chi ti dà il diritto anche solo
di illuderti, di pensarti artista,
sei un poetastro un imbrattatele
un cantantucolo uno scribacchino
un egocentrico e un narcisista.
E posta anche tu qualcosa di serio
tipo oggi mi stanno tutti sul culo
o una foto di gatti o di libri
o, che è sempre un grande classico,
di gatti che leggono libri.
***
Ho pianto tanto tanto e tanto.
Credimi, pensavo che il cuore si fermasse.
Dovevo averti molto di più
ma pensavo ci fosse tutto il tempo.
Ancora oggi ti abbraccio nella mente
e grido tra i denti e ti bagno la spalla
e tu ti stacchi e io ti guardo
con la tua testa pelata e l’orecchino
e le orecchie come manici di un vaso
e la bocca che arriva dall’una all’altra
chissà come e la risata beffarda,
e tu che fai spallucce, ora mi sfotterai,
ora manderai tutto in vacca, il mio dolore
e il fatto che ancora ti parlo, che d’istinto
mi viene da invitarti a un concerto,
che tengo le tue parole strette al petto.
***
Pensiero assurdo
di esserti madre
io amorosa e confusa
e fragile e fallita come te
non ti avrei mai fatto male
saresti stato libero
e amato come io amo
enormemente e a mie spese
e saresti ancora qui
a prendere il bello e il brutto
delle cose ma immancabilmente
fino in fondo come hai sempre
fatto, e io ci proverò ora
a ridarti alla luce
puro e perfetto come
si pensa ai morti che si amano
però vivo
e senza più dolore
io ci proverò
a spandere le tue parole
come semi di bellezza
proverò a piantarle
ovunque nelle persone
buone e sensibili come noi
vedrai che attecchiranno.
***
lacrime di pioggia alla finestra
pioggia di lacrime sul mio viso
- è forma di nuvole l’andarsene
di lui che non è mai arrivato -
tampono la consueta impressione
di un arto che si stacca
stavolta sembrava quasi
mutato in ala