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Francesca Scotti: chi sono?

Da Narcyso

Francesca Scotti, QUALCOSA DI SIMILE, pequod 2011

Francesca Scotti: chi sono?
Chi sono i personaggi che abitano questi racconti? Chi sono, mi chiedo soprattutto; piuttosto che storie vivono.
Le loro vicende sono spesso banali, attraversate da quella sublime e misteriosa casualità che almeno una volta nella vita abbiamo conosciuto tutti. Trame un po’ demodé che slittano ambiguamente verso l’idea di un altro tempo, di un altro spazio, come se le cose stessero avvenendo di lato, secondo una piega a cui non avevamo pensato.
Così, per esempio, un gruppo di amiche trascorre una vacanza in una vecchia dimora di campagna dove, evidentemente, dalla disseminazione di piccoli segni, il lettore si aspetterebbe lo sviluppo di una storia di fantasmi; niente di ciò avviene, quanto, piuttosto, la descrizione della noia e un piccolo avvenimento intimo che ha a che fare, come si è detto prima, con l’essere dei personaggi, con il maturare consequenziale delle loro trame interiori.
Nel breve racconto d’inizio, la storia parrebbe prendere la strada del noir, e invece si interrompe proprio lì, mentre Camilla, adolescente in fase di recupero, alza il coltello per distruggere una torta venuta male; segno di un rapporto difficile col cibo e con la madre.
Un personaggio maschile descrive, nella sala di un ristorante in cui è entrato, incuriosito dalla strana scultura di una fetta di torta circondata da filo spinato posta su un tavolino all’entrata, il pasto abnorme di una donna solitaria.
Nessuno sembra accorgersi della cosa, se non i camerieri che commentano: “pensi che a noi ci tocca assistere a questa scena tutte le sere…E non è nemmeno l’unica delle nostre clienti speciali”.
Il tema di questo racconto mi permette di arrivare alla centralità della questione, come accennato prima: ciò che accade in questi racconti non ha a che fare con l’invenzione narrativa in sé ma con la narrazione interiore, mutazioni e tentativi di sublimazioni. Questi personaggi abitano una sorta di marginalità, difficilmente varcano la soglia della devianza; rimangono intrappolati in una vita che sembra realizzarsi – attraverso una descrizione minuta del quotidiano – nell’accadere banale, senza mai però la dichiarazione di una frattura, ma al limite di una inquietudine; anelano a dei cambiamenti che non sembrano però godere delle condizioni per avverarsi. Quando la mutazione, piccola o grande, avviene, essa viene narcotizzata da una specie di sordina, dal patto di un segreto da tenere in custodia.
Insomma, la vita che queste persone vorrebbero per sé o la vita degli altri che descrivono, è la risultante di un fallimento già avvenuto o che potrebbe accadere.
Il futuro di molti adolescenti di queste storie, è sospeso nella narrazione di eventi misteriosi, di casualità spesso banali, ma che si caricano di peso, fino a una esplicita visualizzazione di simboli e sogni, poi coscientemente banalizzati, come a voler smontare i meccanismi di molti generi letterari: storie di fantasmi, noir, thriller, romanzo di formazione; generi coscientemente utilizzati e subito abbandonati.
Proprio a partire da questo abbandono, da questo depistamento nello svolgimento nelle trame e, non per ultimo, dal conseguente spiazzamento che provoca nel lettore, mi piacerebbe verificare l’ipotesi se Francesca Scotti abbia meditato su alcuni meccanismi narrativi presenti nel Tabucchi di Notturno Indiano e de Il filo dell’orizzonte, soprattutto per quanto riguarda, appunto, lo slittamento delle conseguenze logiche del filo narrativo. Accade, infatti, più di una volta, che il personaggio di un racconto appaia, più defilato, in un altro, ma questo accadere non interagisce più di tanto con le conseguenze della narrazione: rappresenta, piuttosto, la sublimazione della beata e innocente casualità del vivere, piuttosto che un interesse, come avviene in Tabucchi, per una teatralizzazione progettuale della narrazione. Ma avviene anche in funzione dell’inseguire un tema; di una variazione musicale, che ha il suo senso nella possibilità/ricerca/desiderio del suonare insieme.
I temi del suonare – pianoforte e violoncello – di un cattivo rapporto col cibo, fino al vomito e, soprattutto, mi sembra, del fallimento dell’educazione, si intrecciano indissolubilmente nel bellissimo ultimo racconto in cui si narra dell’amicizia fra due donne musiciste, una delle quali suona la mediocrità, l’altra il genio; di una maternità voluta per negare a se stessa la genialità, ma in un rapporto parenterale complesso: amicizia femminile, fratellanza, insipienza genitoriale, paternità, senso di colpa.
L’immagine centrale, per dire di questo macrotema dell’isterismo compresso e del cibo come negazione complessa del sé, è proprio la fetta di torta finta contornata dal filo spinato che il personaggio di un altro racconto osservava davanti all’entrata del ristorante; prologo del mostruoso pasto della donna, di cui si è detto prima, e il commento di lui, all’uscita: “il filo spinato non era stato messo per proteggere la torta da me. Ma viceversa”.
Questo strano oggetto è stato commissionato ad Alesa, artista in erba, a cui la sorella Sofia, per segnalare la mancanza educativa della madre, ha ucciso il ratto domestico facendolo ingozzare dentro il frigorifero in cui la bestia è rimasta chiusa. Così il fratello si vendica mostrando alla sorella le foto erotiche della madre col suo nuovo compagno sullo sfondo/letto di una torta di panna dove i due corpi annaspano.
Insomma, come si può intuire, queste storie anelano a una complessità in cui la musica suonata insieme suggerisce una riflessione sull’arte come libera esecuzione di sé o piuttosto sforzo sovrumano verso un sentirsi all’altezza di obblighi, di modelli vissuti come castranti. Scegliere di essere, dunque – la ribelle Emma sceglie la maternità per liberarsi dell’ossessione del genio, per non suonare più – o piuttosto rinuncia ad essere; come fa Paul, il quale decide di seguire le sorti del padre dopo un incidente stradale che gli ha fatto perdere la memoria. “Gli restava solo l’infanzia, nitida e intensa. E – adesso – era certo di voler vivere lì, sulle montagne. Accanto a suo padre che per il suo ottantesimo compleanno aveva potuto aggiungere un nuovo trofeo alla sua collezione. Su quelle montagne dove la sua memoria era rimasta.”

Sebastiano Aglieco

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