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Francesco Dalessandro, L’Osservatorio

Creato il 10 novembre 2011 da Fabry2010

Pubblicato da lapoesiaelospirito su novembre 10, 2011

 

di Claudio Damiani

L’osservatorio è un poema, o un “romanzo in versi” come ci suggerisce Domenico Adriano nella bandella, composto di quattro sezioni: la prima, la seconda e la quarta sono costituite, ognuna, di dodici poemetti (da ricordare che la prima sezione era già uscita, in plaquette, nel 1989, con lo stesso titolo), mentre la terza sezione è una lettera. Cominciando a leggere colpiscono soprattutto i paesaggi, le vedute. Sono vedute romane, piuttosto periferiche: viene da pensare a Pasolini, ma anche alla vedutistica romana del sei-settecento. Si pensa dunque a un osservatorio astratto, figurato, ma dopo un po’ si distingue, nel paesaggio, un osservatorio vero e proprio: l’Osservatorio astronomico di Monte Mario, e si intuisce che il senso vero del titolo, e della poesia di Dalessandro, è nella letteralità, più che nella metafora, è nella scoperta del mondo come interezza a sé, senza soggetto, come guida anzi, modello, maestro del soggetto (e in ciò Dalessandro è vicino a tanti altri autori che hanno esordito intorno alla metà degli anni ottanta). Si capisce poi, addentrandosi nel “romanzo”, che il paesaggio è uno solo, anzi, più che un paesaggio, è un percorso: il percorso che l’autore compie, ogni mattina, per recarsi al lavoro, e ogni sera, a ritroso, per ritornare a casa. Ogni poemetto è dunque un’uscita – difficile non pensare, per la luminosità delle immagini, all’uscita mattutina dell’Annina caproniana, o alle albe provenzali – e insieme un ritorno, che sempre uguale si ripete, e insieme è sempre diverso, per le infinite variazioni della luce e dell’ora, della stagione e dell’animo (e qui traspare la lezione bertolucciana). L’io del poeta dunque, che tanto era sembrato annullarsi nel paesaggio, ci ricompare davanti nella sua ansia conoscitiva, e nel suo desiderio di pace (il paese di tutta quella luce / si gloria tranquillo), e la ripetitività ossessiva ci svela la natura lirica del libro, che lo avvicina, più che a un romanzo, a un canzoniere (ma anche di Petrarca qualcuno parlò di “romanzo”).

Da L’OSSERVATORIO

IV Parte – MARE DELLE PASSIONI

***

1 (Su queste rive)

Doloroso in queste sere (quando il freddo

si fa pungente il cielo piatto e gonfio

d’acqua pronta a scaricarsi lontano

su quartieri offuscati a occidente

verso il mare e Monteverde sul Pineto

dove i primi colori primaverili e mature

sofferte mimose ingemmano radure,

generosi profumi elargiscono dai lunghi

piani), per chi su quella vista persi

gli occhi e smarrito nell’eco lontana

di voci attardate oltre i declivi verdi

della valletta dei cani e scoppiettanti rosse

azzurre moto (ai declinanti ultimi raggi

con riflessi e riverberi al varco della rete

metallica oltre il ponte e la gran volta

della strada disparenti) presto perse

agli occhi si divide fra l’ansia del ritorno

alla cura infruttuosa (oh con quale

solerte inganno) dell’arido giardino

che da mesi non produce più niente

(ma a maggio nel tepore del mattino

una rosa fiorirà macchiando il pruno

solitario col suo sangue) e un istinto

di fuga (come se libertà da volontaria

reclusione cercasse per amore

o volontà di perdizione); doloroso

in queste sere, bruciante nella viva

carne il ricordo del vuoto (un abisso

e paradiso in cui i corpi al tocco lieve

delle dita tremanti scivolavano) perduta-

mente si ridesta da un’altra trepida

sera di febbraio in cui un uguale gelo

e un’inquietudine serena di nascenti

speranze pungevano l’anima, un vago

avvenire adombrando (e quanta pena

poi che un amore fioriva, il vecchio

e malato minacciando: avrebbe vinto

e si sarebbe imposto per il tempo

d’una falsa primavera

– «oh lunghi ardenti

giorni fatevi specchio amoroso dei nostri

gesti, oh versi brevissimi rampolli

segreti e solari di chi per impazienza

e peccato ora non cura e non sorveglia

la vostra crescita lasciate

ombra e luce inseguendosi tepore

e umidità che spontanei nell’angolo nudo

del giardino chi non sa vi riconosca

testimoni amorosi» –

per finire ucciso

dal proprio furore a inizio estate dopo

una sera agrodolce di fragole e vino,

e una notte d’amaro dolorosa

per chi senza più sonno si stordiva

con immagini e parole), castigo

degli anni avvenire, fino al maggio

(di rondini e rose del maggiore anniversario)

in cui distacco e volontà di guarigione

ci avrebbero salvati o illusi, cuore,

per quest’ora di mortale tenerezza

per i Mani bambini di un domani di vittoria-

morte (se è vita solo la sconfitta)

in cui spento ogni fuoco (incenerito)

avviandosi l’inverno alla sua fine,

i dolci tepori di marzo ritornando

e a tempi più incerti alternandosi

di pigre nubi passeggere nel turchino

della sera su sobborghi e quartieri

popolari oltre Ottavia borghesi della nuova

Cassia verso una meta impensabile,

chi in quel transito (o fuga) perdendosi

sereno apre il cuore – e sedendo

dopo cena a uno scrittoio di buon

legno stagionato lavorato da artigiani

del nord potrà scrivere: su queste rive

io mi custodisco.

***

2 (Mare delle passioni)

Perché nato un nuovo giorno come ogni

giorno levo le vele della mente verso il mare

aperto delle passioni, navigo temendo

e sperando il loro assalto, tremo preso

nel guasto degli anni nel turbine

dei pensieri, avversi venti, furiosa

smania e malinconia mi spingono

a una discesa leggera oltre la porta

angelica del peccato, cuore oppresso

dal peso dell’attesa per l’accorato

amoroso mattutino messaggio di una luce

assiderata traboccante nell’incerta

volontà dell’amore eppure assorto

nella derelizione di quest’ora (mai

azzurro fu più mite mai mattina

più inquietante e feconda di questa era

nata ai miei occhi opachi mai più pigre

nubi dell’anima trascorsero e indolenti

passeggere verso oriente vidi perdersi

e svanire schiarirsi l’orizzonte), mentre oscura-

mente nato lo sconforto, come il viola

dei glicini muri e ringhiere di balconi

e giardini, mi avviluppa e riconosco

nella pallida ombra dei platani nel verde

vivo di nuove foglie una confusa

speranza e un’ansia mite nel tepore

d’aprile vincente (anche se fuori

stagione) come in me quei divergenti

sensi e buie passioni nitore di ricordi

redivivi smanie e idilli giovanili,

presaghe delusioni di più vili anni

futuri.

***

7 (Una musa)

La mia solita febbricola, una musa

casalinga e privata

così poco mondana ma non priva

di civiltà trastulla

la noia con le fragili forme di un’ansiosa

felicità, e con la tenera rosa ottobrina

ritorna la smania di vivere l’amore

giovanile la grazia perduta di un’età

passata, il tardivo pentimento la pudica

speranza, illusione nevrotica di un cuore

già stanco e incubo quieto d’ogni nata

mattutina dilezione, ma la sorte

solitudine adduce mentre calco claudicante

le scene di un mondo di nuovo avviato

all’autunnale sperpero di vita al desiderio

di morte, malinconica attesa che è carne

di futura mestizia carità che non consola,

nel giorno nato uguale e diverso diversa-

mente amato, l’inverno mio teatro

e osservatorio quando a sera anche l’inganno

mattutino si svela rivelandosi volgare

avanspettacolo giostra corteo funerario,

la verità rivelata e corrotta una profana

ascesa ai più infimi abissi del divino

amore, tempesta preparata a redimere

il deserto, una mano due tese a toccarsi

a tentare fortuna: cosa resta da volere

e da scrivere?

***

8 (Il mattino)

Strane voci nell’aria del mattino

festivo destano all’ansia alla pietosa

luce che scalda l’erba e i verdi lauri

del giardino dirada le notturne

brume scioglie la brina uccide i sogni

avviando cuore e mente dal torpore

della bassa pressione uscenti come

il sole dai nembi a fatica l’albanella

dal fitto dei rami – è il tempo incerto

dell’autunno romano quando nei viali

maculati di ruggine strepiti d’ali

e richiami chiassosi di storni dalle chiome

ramate dei platani levandosi a chi sosta

o transita oscurano la vista l’azzurro

mattutino mitissima procella sopra Monte

Mario vaniente oltre le antenne e l’ocra

sporco e vecchio dei Prati – mentre prende

vita la strada e a poco a poco cresce

il frastuono del traffico si anima la casa

si scaldano voci e finestre, ma il rumore

ferisce e risveglia il dolore sopito

di una passata età che si credeva

sepolto nel costato insieme a morte

passioni acerbi inganni giovanili

e quel dolore l’angoscia magra smania

di perdersi nutre come i tiepidi raggi

novembrini l’opulenta magnolia le sue

grasse foglie ondeggianti alla fredda

tramontana, così me tra desiderio

e abbandono oppresso dall’inquieta

sedizione del cuore nella nemica aria

fragrante nell’amorosa luce di un sereno

sguardo poi che ignaro di quanta

tenebra offuschi il mio e i miei pensieri

incapaci d’amore e vita ormai

fuori da ogni partita che ancora

gioventù nei lunghi giorni gioca

mentre a me gli anni sono corti

e difficili, incerti come questo mattino

maturato con passaggi di nuvole

e paure nel cuore nel cielo turchino.

***

9 (Sirena)

Avverrà in questo terso mattutino

cielo di novembre dopo i morti anche la mia

redenzione? la vite risanguina sul viale

vena il verde del muro lo insanguina

la siepe incurabile muore, vacillante

volontà mi sospinge dopo mesi, una sirena

dopo l’altra clamanti insistenti vocalizzi,

nel fresco mattino sereno a fare versi:

clemente quiete nel giardino assolato

e solitario dopo il sonno e la notturna

pioggia, indugio in minuzie ma non devo

disperare se immagini sfocate coglie il miope

sguardo: un nido caduto guscio vuoto

annerito dall’acqua gocce-luci sui tralci

dell’edera brillanti verdi tenere o dorate

escrescenze aghi e foglie la pozza l’invaso

d’acqua morta e liquami il filare dei lauri

il rastrello e la forbice l’erba tagliata,

una lumaca vi traccia scie d’argento,

la giornata si scalda le nostre tartarughe

passeggiano caute sulla terra umida

il traffico scorre, una piena anche la nostra

vita, passano cirri e stagioni noi restiamo

abbandonati nei giorni deserti rubricati

nelle vecchie istantanee di un album

che a sera la mente risfoglia, l’età è mondo

e passato una pozza d’acqua scura

dove trote argentate crescono i ricordi

nuotando e ingrassando sfuggenti

l’esca e l’amo del presente della mia

poesia.

***

12 (L’osservatorio)

L’osservatorio, il punto

d’osservazione è quello ma le cose

sono cambiate (peggiorate) «forse osservi

da una diversa prospettiva con avverse

condizioni» anche l’età non è la stessa

«(l’età o l’epoca?) aggiungi l’accentuata

imperfezione della rima» quanta

quanta acqua è passata sotto i ponti

di questa nostra Roma appena sveglia

«sempre uguale a se stessa» da quassù

da un’altezza che la redime nella prona

misericordia del sole ancora assorta

sonnolenta e distante dalla trama

defoliata dei rami da vertigine di curve

e discariche appare (l’uomo curvo

sulla rampa a restringere foglie ad ammassarle

per il fuoco non vede non si accorge

di quest’ora e questa brama, consueta

visione dei giorni) come i sempre-

verdi ancora a corona dell’oro gli alti

pini (oh svettanti) nel mattino di gennaio –

chi ritorna sulla soglia dei quaranta-

cinque anni a discendere dolente, con la mente

formulante congetture di un estremo

nuovo inizio d’amore

«oh ridicole speranze

buone a illudere non necessarie oh vergognose

lagne, l’anima offesa nei suoi muti

giorni piange sventura ah miserella

sognante un corpo e una vita di beata

felicità – quale inizio che sia servo

e padrone di se stesso? quale insonne

verso scritto in corpore vili? una celeste

mattutina salvezza o il lagno muto

sull’aria dell’Ermione: non sperare

sorte amara (ti rivedo, ah ti parlo!) non farti

illusioni»

quei pini assiepati quei frementi

pini appena svegliati dal calore a un distretto

fortilizio rassomiglia nell’azzurra

castità del mattino che lo vede

allontanarsi sospinto da una smania

dolce da un’ansia divenuta impaziente –

e il giorno cresce si fa più caldo

il sole il traffico più intenso l’ora

e l’aria maturano addolcite mentre spira

tra le siepi e i rami spogli della vite

americana dalle curve sulle foglie

tintinnanti e sui volti un leggero

vento, limpido il cielo ma sul cuore

pesa una nube l’ansia dolce diventa

sottile angoscia «mio dèmone domani mi dicevi

sarà il giorno finita la clausura di cercar

ventura, io consumo l’attesa passando

il ponte e tu sei pronto a uccidere l’illusa

speranza un’altra volta senza averne

pietà», negli occhi stupefatti è pura

luce il fiume la città corpo segnato

per secoli paziente si dispone al nuovo

giorno.


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