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Francesco Rosi, Salvatore Giuliano e i confini della verità

Creato il 17 gennaio 2013 da Casarrubea

Il prossimo 1 febbraio, alle ore 21, ai Cantieri culturali alla Zisa, discuteremo con Franco Maresco e Saverio Lodato del film di Francesco Rosi ‘Salvatore Giuliano’.  Per l’occasione ho predisposto, per i lettori di questo blog, una traccia di argomenti di discussione. Una questione che sarà affrontata, sarà certamente la trattativa Stato-mafia, che molti fanno risalire al 1992 ma che, come vedremo, ha una sua lunga storia che risale al bandito Salvatore Giuliano e agli accordi che furono stabiliti per la vittoria elettorale del centrismo alle elezioni politiche del 18 aprile 1948.

Programma iniziative di Franco Maresco alla Zisa

Giuseppe Casarrubea

Fotogramma di un film di Ciprì e Maresco

Fotogramma di un film di Ciprì e Maresco

Fiction e verità nel Salvatore Giuliano di Rosi. Quando il neorealismo si fa arte e tecnica e si rende autonomo rispetto alla ricerca della verità, pur dichiarando il suo impegno civile. Il conflitto realtà-verità e l’ingabbiamento delle versioni ufficiali.

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Intervistato da Peppuccio Tornatore sulla sua vasta produzione cinematografica (Io lo chiamo cinematografo, Mondadori, 2012) Francesco Rosi ci ha recentemente fornito (novembre 2012) alcuni particolari su Salvatore Giuliano, un film che ha segnato un’epoca e forse anche la nostra sensibilità e cultura.

Il mio primo contatto con questo capolavoro era avvenuto a Roccamena, dove ero stato assegnato come insegnante statale in un corso per adulti contro l’analfabetismo di ritorno. Nel paese svolgeva la sua azione sociale Danilo Dolci che vi aveva impiantato il Centro studi per la piena occupazione. Era l’epoca degli scioperi per la costruzione della diga Garcia (1964), e allora gli intellettuali avevano una forte proiezione sociale. Erano i tempi di Sciascia, Vittorini, Levi ed Ernesto Treccani. Con Ignazio Buttitta che declamava le sue poesie nelle pubbliche piazze e cervelli come il matematico Lucio Lombardo Radice alla testa di cortei di disoccupati, molto attivi sulle barricate, pronti a difendere i diritti costituzionali di tutti.

Fu così che anche a Roccamena arrivò il film del grande regista napoletano. Danilo venne a chiamarmi di proposito, insistendo che non mancassi alla proiezione. Ci sedemmo accanto, ma non ricordo i suoi commenti durante e dopo la visione del film. Posso dire soltanto che non provai gli stessi interessi che invece mi  presero successivamente, specie dopo i miei primi studi sulle carte del processo di Viterbo.

Dolci e Rosi avevano interessi diversi per questa pellicola. Il primo pensava piuttosto alla realtà del banditismo come un effetto della miseria e dell’abbandono in cui lo Stato teneva il Mezzogiorno; l’altro, più obiettivamente, forse, guardava a quel fenomeno come un elemento delle complicità istituzionali che avevano fatto della Sicilia una terra in balia del separatismo e dei giochi di potere. Banditi a Partinico e Processo all’art.4 erano stati del resto il frutto di una condivisione del carcere in nome della redenzione contro la violenza indotta dal bisogno. Salvatore Giuliano era allo stesso modo una condivisione con la subalternità sociale contro le logiche politiche, le manovre del potere. Un’adesione non esplicita ma quasi istintiva. Finché con la strage di Portella si delinea la demarcazione nel gioco delle parti e il caso Giuliano viene consegnato a identificabili ragioni di Stato.

Oggi il “re di Montelepre” avrebbe la stessa età di Rosi (entrambi sono del novembre 1922). Nell’anno in cui uscì il film (1962) il regista aveva quarant’anni e molta acqua era passata sotto i ponti dalla tragica e misteriosa notte di Castelvetrano (5 luglio 1950), quando ad appena ventotto anni il capobanda sarebbe stato ucciso durante un conflitto a fuoco con i carabinieri di fatto mai verificatosi. Il film, però, non nasceva dal mistero, ma da una certa voglia di capire la realtà siciliana. Spinta, questa, che ancora prima del 1950 – ci fa notare Rosi – ed essendo il bandito ancora vivo – aveva portato Aldo Vergano a realizzare nel 1949 I fuorilegge dove i panni di Giuliano erano vestiti da Ermanno Randi. Alla fine di questo stesso anno risale infine un cortometraggio nel quale compaiono Giuliano e Pisciotta in un contesto agreste. I due sono in compagnia di un gruppo di giornalisti in una stalla di Salemi: Italo D’Ambrosio, Ivo Meldolesi e Jacopo Rizza. Forse qualcuno aveva commissionato un film, forse si avevano altri intenti. Probabilmente sarà questo elemento della finzione a giocare, quella notte di spari e messinscene, una funzione determinante. E’ ormai accertato, infatti, come Mario J. Cereghino ed io abbiamo dimostrato ne La scomparsa di Salvatore Giuliano, che quella notte del 5 luglio (e già da alcuni giorni) nei pressi del cortile della casa dell’avvocato Di Maria, si aggirava un furgone che simulava un mezzo di qualche compagnia cinematografica, che funzionava invece da coordinamento operativo dei servizi di intelligence dell’Arma dei Carabinieri. E non certo per la cattura del bandito, visto l’esito del finto conflitto.

Insomma la documentazione fotografica e cinematografica di Giuliano risale a un’epoca anteriore alla messinscena del 5 luglio, e lo stesso Rosi scrive che la “prima volta che aveva pensato a Giuliano” era stato nel 1946 “sulla salita che portava a Monreale”. Dice Rosi: “ Mi fermai e sentii il cannoncino dei soldati che sparava a Montelepre contro Giuliano e i suoi banditi. C’ero andato con Carlo Mazzarella. Gli dissi: ‘Pensa Carlo, fare un film su Salvatore Giuliano…’. L’idea gli torna in mente nel 1950 durante la sua collaborazione con Suso Cecchi D’Amico alla sceneggiatura di Bellissima.

Salvatore Giuliano è, dunque, un film maturato nel corso di lunghi anni, cresciuto nella coscienza e nella professionalità di un regista che vuole misurarsi con la realtà e che per farlo vi si immerge per capirla, riprodurla e interpretarla. Un viaggio soggettivo in cui, ad agire, è la sensibilità personale, il filtro di una cultura nello stesso tempo inventiva e realistica. La sola comunque che consente a Rosi di leggere la Sicilia da angolature non usuali: il potere da un lato e la morte dall’altro. E qui si coglie un nodo centrale del film che consiste nella reciproca autonomia tra realtà e verità. Si tratta di due livelli che entrano in conflitto e disvelano, a tratti, l’ingenuità con cui Rosi affronta gli uomini e la loro storia, nonché quel mondo sotterraneo che non affiora alla superficie, rimanendo nel suo enigmatico vuoto. Si veda, ad esempio, il caso delle donne che circondano il bandito. Un caso, il più clamoroso, per tutti. Quello di Maria Cyliakus, la sedicente giornalista svedese che senza difficoltà alcuna avvicina Giuliano sulle montagne di Montelepre, scrivendo poi sdolcinati versi privi di poesia e di calore. La donna era in realtà un elemento dello spionaggio internazionale, e, come altre donne che venivano a contatto con il bandito, ad esempio Selene Corbellini, erano esponenti di spicco del neofascismo nazionale. Per quanto Rosi, dunque, si sia sforzato di diventare un vero monteleprino e si sia documentato con gli esperti che potevano aiutarlo o dargli un consiglio (Franco Grasso, Michele Pantaleone, Mauro De Mauro, Carlo Levi e persino Walter Chiari e Leonardo Sciascia, amici questi ultimi di Giancarla Mandelli, moglie di Rosi ecc.), la realtà cinematografica in lui non supera mai il livello dell’événementielle, cioè di una leggenda politica (e positivistica) così come appare, che si rifiuta di penetrare nel profondo, nel fluire più ampio delle cose. “Ogni episodio che ho rappresentato nel film – dice Rosi a Tornatore –  è accaduto realmente. Tra il Monte d’Oro e Montelepre. E’ tutto verificabile, tutto.” Certamente. Ma il problema è che in questa immersione, o contaminazione con la materialità della vita e del quotidiano, il regista prende le distanze, come dice, “dal modello tradizionale del racconto romanzato”, e assume lo stile e le forme  espressive più aderenti alla narrazione della realtà, così come appariva ai suoi occhi. Un fatto di ordine retorico-estetico in cui se predomina la realtà anche quella più minuta, non per questo la verità ha una sua supremazia. Un esempio lo troviamo in una scena girata al cimitero di Montelepre, quando Rosi dà istruzioni al custode di scrivere sulla muratura fresca di cemento gli estremi anagrafici del bandito. Si trattava di una tomba vuota dove – dichiara il regista senza pensarci due volte – “un tempo la bara di Salvatore Giuliano era stata davvero” collocata. Una delle tre diverse tappe che il cadavere del bandito avrebbe toccato prima della sua definitiva sepoltura. Un racconto, questo, che da solo avrebbe potuto suscitare l’interesse di Mary Shelley, autrice del romanzo gotico Frankenstein. Come non interrogarsi allora su quella bara tumulata a Castelvetrano la sera del 5 luglio 1950, consegnata ai familiari tre settimane dopo, collocata quindi in una tomba che nel 1961, quando Rosi gira il film, trova vuota? Insomma il realismo di Rosi corre in superficie lungo la memoria e il sentito dire, ma non si azzarda ad andare al di sotto della scorza, o della verità quando questa coincide con la verità ufficiale Quella giudiziaria o della stessa Arma dei carabinieri. (“[…] ho voluto camminare sulla traccia della verità giudiziaria”). Basti pensare che tra gli attori del film troviamo due banditi che avevano fatto parte della banda e uno dei firmatari del Rapporto giudiziario con il quale erano stati denunciati gli esecutori della strage di Portella della Ginestra: il maresciallo Giuseppe Calandra. Un atto di accusa che salvava di fatto i veri mandanti. Ci troviamo di fronte, in definitiva, a una verità di Stato accettata con eccessivo dogmatismo e che è difficile condividere, specialmente se a decifrarla c’è un regista di sinistra con i suoi dubbi, la sua laicità. (“Andavamo in ogni ufficio che poteva conservare materiali che ritenevamo utili. In molti casi si trattava di documenti depositati ufficialmente. A volte ci muovevamo con un po’ di astuzia”).

E’ questa ingenuità a tradire la natura romantica del regista, e il carattere che in lui ha “l’emozione della ricostruzione”. Un processo collettivo di “rifabbricazione della memoria”, ma non di interpretazione critica. Di arte e tecnica semmai. E non poteva essere altrimenti visto che in quel processo Rosi si trovava a confrontarsi con diversi punti di vista senza potersi fidare di nessuno di essi. Alla fine afferma: “La verità è che oggi, dopo cinquant’anni, restano tanti gli aspetti irrisolti non solo sull’attività di Giuliano, ma anche sulla sua morte”. E cioè su chi lo ha manovrato e poi veramente ucciso. Una consapevolezza, questa, che conferma la linea d’ombra lungo la quale si muove il film con la sua innovativa irruzione nelle “grandi sfide del neorealismo”, ma che lo rigetta costantemente al di là del filo di luce della verità. Così il regista oscilla tra realtà e finzione, ideologia e tensione lirica, politica e slancio ideale, separatismo e aspirazioni emotive che non riescono a comporsi in una precisa sintesi. Quando non viene catturato dalle istanze poetiche del separatismo, quali sono quelle espresse da uno dei capi di questo movimento, Pietro Franzone di Borgetto. La persona che accompagna la delegazione che investe a Sagana Giuliano dei gradi di colonnello, interprete anche dell’ideologia separatista e del suo esercito armato. Un neorealismo, questo, che nasconde verità inespresse, quella, ad esempio, che il separatismo funzionò da base di massa delle spinte neofasciste legate all’eversione nera italiana. Fatto di cui non c’è traccia alcuna nel film e che evidentemente Rosi ignora. Ora si può capire che tra i banditi e la gente comune non si avesse sentore di certe complicità, ma è mai possibile pensare che i marescialli dei carabinieri Calandra e Giovanni Lo Bianco, che collaborarono al film e che furono anche i firmatari del Rapporto giudiziario sulla strage di Portella, a distanza di quindici anni da quel 1°maggio, non avessero avuto il minimo sentore sulle ragioni misteriose della strage?

Si noti la vistosa scorticatura al braccio- Foto Montalto- Archivio Corseri

Si noti la vistosa scorticatura al braccio- Foto Montalto- Archivio Corseri

Analoga domanda ci poniamo in merito alla scena del riconoscimento del cadavere nell’obitorio di Castelvetrano. Ma questa volta l’interrogativo riguarda il regista. E’ mai possibile che egli non sia stato informato da nessuno che questo riconoscimento di fatto non ci fu mai? Eppure la scena è costruita in modo magistrale per avvalorare la versione dell’avvenuto riconoscimento. L’anziana madre, che aveva avuto un figlio bandito ucciso dai carabinieri, avvolta nel suo scialle nero, si avvicina al corpo del figlio morto. Non recita, si immedesima nella parte che è anche la sua parte, mostra un dolore autentico, “un’emozione vera”. A tal punto che continua a piangere anche dopo lo stop alle riprese. Il realismo della scena è tale che nessuno ha mai messo in dubbio che quel riconoscimento ci sia stato veramente. E ciò è un problema in quanto la finzione induce a ritenere che un fatto sia realmente accaduto. Ma le cose non stanno così. C’è, ad esempio, quel corpo che giace all’obitorio. Ha attorno a sé numerose lastre di ghiaccio. Nella ricostruzione della scena si avverte tutta la fretta del regista di arrivare all’incontro della madre con il figlio ucciso. Non si chiede che ci stanno a fare tutti quei blocchi di ghiaccio attorno al  cadavere di una persona morta da appena dodici ore. Chiede quante “verghe” potessero essere. E, per alleggerire il film dai tagli della censura, ne accetta la riduzione da sette a cinque, “così” quella scena con un corpo seminudo, “si vede in meno tempo”. Un’inezia a fronte del vero interrogativo che bisognava porsi: da quanto tempo era morta quella persona se fu necessario ricoprirla praticamente di ghiaccio? A tal punto che questo si era attaccato alla pelle e che, per staccarlo, si dovette tirare con tale energia il blocco, da scorticare le braccia del morto.

Quali allora le ragioni più plausibili, per un film che vuole essere – come dichiara lo stesso Rosi –  “storico” e non “cronistico”, di una caduta verticale del realismo descrittivo verso il venir meno di una visione critica e della ricerca della verità? Certamente giocarono molto un certo fideismo nello Stato e una certa ingenuità. Giocarono anche la volontà di mediare e di evitare i rischi di una censura ancora severa e minacciosa, o quelle forze che nei fatti erano state i “mandanti” di quella “morte”. Come si poteva evincere dal titolo eloquente di un dibattito presieduto da Ferruccio Parri, ricordato nella sua intervista da Rosi a Tornatore, tenutosi al circolo Turati di Milano nel 1962: La morte su mandato. Un’occasione per parlare “ampiamente di Salvatore Giuliano”.

Quando il film esce nelle sale il periodo è veramente felice. Sciascia pubblica Il giorno della civetta e Luchino Visconti inizia le riprese de Il Gattopardo. E’ un periodo che prepara la nascita del centrosinistra con i socialisti e la democrazia cristiana al governo (1963, governo Moro). Si sviluppa inoltre nel Parlamento nazionale la necessità di istituire una Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia in Sicilia. Fatto che sarà portato a compimento nel febbraio 1963.

Nelle ultime battute dell’intervista, infine, Rosi dimostra di non credere all’ipotesi che il cadavere del cortile di Castelvetrano possa essere quello di un sosia. E ha ragione visto che la sua razionalità si arresta di fronte al dubbio e non riesce ad andare oltre.

Giuseppe Casarrubea


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