Francesco Tadini aggiunge all’Archivio Tadini on line riguardante l’opera pittorica e letteraria di Emilio Tadini un testo dai quaderni / libretto di Studio Marconi (ora Fondazione Marconi) scritto da Tommaso Trini per la mostra di novembre/dicembre 1978 alla galleria Studio Marconi di Milano - Tommaso Trini, Scorporo è l’occhio della pittura: Nella grande tela conturbante intitolata L’occhio della pittura, che Emilio Tadini ha dipinto ultimamente, c’è un nuovo punto di fuga che non riguarda naturalmente la prospettiva geometrica. È l’allontanamento dal gran corpo altrui — come ben s’esprime l’artista nel testo correlato al quadro — mediante cui il corpo, che era il tutto e il continuum, si fa distacco e trauma, e diventa figura. Con questa straordinaria intuizione Tadini fa risalire a un recesso finora poco esplorato le nostre questioni di base: l’estrema domanda, cos’è il dipingere, è posta là dove s’istituirà il soggetto, direbbe lo psicoanalista: ossia, possiamo ancora dire noi con antico termine, ha preso il posto del punto di fuga. >>
È, questo quadro, un’opera che ammiro perché fornisce un bandolo dal centro stesso della matassa odierna in cui s’intrica l’arte. Scrive Tadini: « Il tema fondamentale del quadro che si chiama L’occhio della pittura è la prima vista del gran corpo che, diventando altrui, si muta in figura — il vedere primordiale da cui ha origine nel bambino l’atto e il senso del tracciare segni e da cui voglio dire che ha origine la pittura ». Per chi voglia, si vedano qui accanto il testo e la riproduzione del quadro. Non se ne può discutere senza un’attenta osservazione — e io intendo in queste brevi note occuparmi del visto e del visibile concreto.
Francesco Tadini, archivio Tadini, opera di Emilio Tadini, L'occhio della pittura, acrilici su tela,1978, 260x800, dettaglio01
Un piccolo ma centrale punto di fuga, dicevo, che consiste in un occhio tagliato da un coltello che riposa ai suoi bordi, quale campeggia sul tavolo nel mezzo del quadro: una scena che è, per così dire, servita su di un piatto. Forse perciò m’inganna. Mentre penso che il potere di significazione di quest’immagine è ampio e insieme oscuro, pur essendo chiaro naturalmente che lì, in nuce e luce, s’esprime la dialettica di corpo e figura, il tagliente trauma del vedere nella luce che allontana dal corpo altrui e materno, il distacco dell’io individuato (sto familiarizzando con la tesi compiutamente espressa da Tadini nel suo bellissimo testo scritto, che aderisce al testo da lui dipinto e fatto pittura come la palpebra si curva sulla pupilla) — mentre cosi penso e scruto, m’accorgo d’essere caduto in un lapsus visivo. L’occhio sul quadro non è affatto tagliato. Il rasoio, posato a distanza, ripiega ancora sul suo astuccio, e ai bordi del piatto non c’è che un cucchiaio — per sorbire che? È la palpebra che divide l’occhio, enucleando la molle pupilla. L’occhio dipinto sopra il piatto al centro del quadro (là dove la mia memoria ricerca d’istinto il punto fermo e la convergenza, e incontra solo assenza e sparse figure in uno spazio bianco, colloidale) non è forse neppure un occhio: bensì l’equivalenza, complice il segno e il colore, d’un mollusco, d’una perla nella sua acquosa ostrica sotto l’acqua. Ora scruto una figura edibile. Un occhio antropofagico. Una vagina?
Nell’osservare per la prima volta il quadro insieme con Tadini, ho avuto un altro lapsus, questa volta connesso con la parola. Sulla sinistra, la porta dipinta dietro l’ermafrodita e sotto la parola « casa », ove si mostra un’invitante serratura, altro non è che la porta della celebre opera postuma di Marcel Duchamp esposta a Filadelfia, come d’altronde dichiara la scritta in gotico « Duch ». Strano, solo allora mi sono accorto che fin lì — fuorviato dal gotico e da una certa mia aspirazione a parlare un giorno il tedesco — io avevo letto la parola «Durch», che guarda caso vuol dire quel che la serratura mi suggeriva, cioè «attraverso» in tedesco. L’elisione di Duchamp in «Duch» e, per me, in «Durch», è un ready-made? Tempo fa il pittore ha dedicato un quadro all’avanguardia storica e all’objet trouvé. Questo m’aiuta ad approssimare la strana e conturbante qualità di questo e di altri dipinti di Tadini: voglio dire la sospensione in cui le sue immagini paiono moltiplicarsi ed impercettibilmente modificarsi, mobili, slittanti, spiazzanti. Può dirsi d’una pittura che le sue figure occhieggiano, a loro volta desideranti? Se sì, lo dico per queste torsioni ed elisioni visive. L’objet trouvé, dunque, come Tadini classicamente definisce quel che cita dalla storia della pittura, e fa regredire da essa, e anzi fa proseguire dalla storia alla struttura — il «trovato » è un metodo del suo modo di dipingere. Costituisce anche il materiale che sta, come ha scritto, « all’incrocio di due sistemi, quello dell’avanguardia estetica e quello della ricerca linguistica freudiana ». Sicché Tadini, che fin dagli inizi degli anni ’60 ha introdotto nel vivo della pittura dipinta e non solo teorizzata la ricerca psicoanalitica (che gli « oggettualisti » posteriori e i francesi « support/ surface » si mettano dunque in fila), può attribuirselo — questo « objet trouvé come macchina per produrre associazioni, per produrre un sistema» — così: « credo che sia anche il centro di molti miei quadri, di gran parte del mio lavoro ». Peraltro ci ricorda che « per Freud, nel linguaggio, il ‘trovato’ rivelava, nel suo apparire decontestualizzato, il tema nascosto ». Ovvio dunque che ne possano derivare alcuni lapsus, nati dal sospetto. Testimonio inoltre che questo contributo di Tadini al dibattito d’oggi sull’arte ha anticipato alcune inespresse riflessioni che mesi fa facevo sul divario di corpo ed immagine in cui si sta giocando il senso dell’arte avanzata.
Pensavo che alla restaurazione compartecipiamo tutti solo che si stia fermi sui nostri passi, che è un indietreggiare. E che non importano i vari stili sperimentali
Francesco Tadini, archivio Tadini, opera di Emilio Tadini, L'occhio della pittura, acrilici su tela,1978, 260x800, dettaglio02
posti muro contro muro, come essi fanno ancora verso la pittura, e magari la figurazione saggistica di artisti di severa ricerca come Tadini. E che l’importante è attenersi all’insieme delle pratiche e dei sensi globalizzati conquistati dalle avanguardie, ossia alla felicità di questo tutto che designiamo con la parola corpo; l’importante è rifiutarsi alla caduta nell’alienante separazione dalle emissioni più profonde del linguaggio — quelle che l’immagine, temo, si porta via. Corpo è un termine di molta fortuna attualmente. Non credo che, in materia d’arte, se ne possa dire di più di quanto leggo nel gran testo altrui, questo di Tadini. In via più generale, il corpo è ricollegabile a l’uno dei due imperativi categorici che Sergio Finzi così ha enucleato dalla nostra cultura: « Bisogna godere sempre di più; bisogna sapere sempre di più ». La figura è governata dalla coazione a sapere sempre di più? Il corpo non è allora, suppongo, quel tutto pieno del finito uterino che certo vorremmo. « È nello spazio ristretto e profondo che si apre tra la parola corpo e la parola figura: è qui che lavora la pittura. /…/ La pittura non vuole riprodurre né il corpo né la figura: vuole rappresentare ciò che separa dal corpo la figura ».
Qui si fa alta l’intuizione di Tadini, qui dove il dipingere (notate come l’autore privilegi il verbo sostantivo sul termine storico di pittura o arte) si ricostituisce in movimento, in differenza, e dunque in terzo dato. Nel quadro, non perdiamolo di vista, il percorso delle figure personificate — che sono poi letteralmente le stesse figure del discorso scritto (lo ripeto, il rapporto tra i due testi, quello dipinto e quello scritto, in Tadini non si limita a esser quello tra la pratica e la teoria, ma anche quello, indovinate un po’, tra la figura e il corpo, quale la palpebra ricerca sulla pupilla) — è un itinerario continuo. Due parentesi poste ai bordi estremi della tela racchiudono la loro circolarità. L’autore mi ha citato a questo proposito il detto di un anonimo pitagorico, secondo cui l’uomo muore perché non sa ricollegare la fine con l’inizio.
Tadini riporta l’intera questione della pittura alla scena anteprima della vista del corpo che si distacca da me soggetto per farsi oggetto nella figura; in anteprima
Francesco Tadini, archivio Tadini, opera di Emilio Tadini, L'occhio della pittura, acrilici su tela,1978, 260x800, dettaglio03
sulla vista del coito tra genitori e dunque sul sesso, come da repertorio della cosiddetta scena primaria. È un recesso molto attraente quello che ci viene proposto, un picco inebriante come il Machu Picchu; senonché anche lì ho trovato molta cultura sotto forma di rovine, oltre che l’alito degli dèi (e dei turisti). Voglio dire che nessun corpo si mostra, io credo, mai nudo: neppure nel quadro di Tadini, dove il primo nudo (che discende le scale secondo Duchamp) è abbigliato di pittura, mentre il signore che ha appena ritratto l’occhio dal buco della porta di Duchamp (oltre cui, è noto, si mira un nudo sesso femminile) è per metà signora, ermafrodita segnalato dalla moda, e infine i bambini che attorniano l’abbraccio dei genitori (come nella rappresentazione del re e la regina sempre secondo Duchamp) li trovano ancora vestiti.
Voglio sottolineare che nei termini impliciti in Tadini la separazione tra corpo e figura ricopia a sua volta la distanza tra il dipingere e i segni: non per nulla l’autore correla il dipingere, non direttamente al corpo primariamente nudo, bensì alla sua ‘ombra’: « il grande corpo altrui: sull’ombra del quale lavora da sempre il dipingere ». Mai nudo, talvolta dipinto, il corpo era e resta depositario di alcuni tabù residui: in primis la morte, in secondo la fame. Al di là della morte stessa, resiste la possibilità di riconnettersi all’altrui corpo, introiettandolo per fame con atto cannibalesco. La pittura che i primitivi praticano ancora sul corpo non è solo segno o figura, ma, come Tadini ha perfettamente espresso, luogo intermedio, terzo dato, cui corrisponde oggi il simbolismo di qualche danza, e ieri corrispondeva spesso il funzionamento simbolico, ma non per questo meno antropofagico, del mangiare il corpo altrui. Mangiarlo cosi come mangerei l’ostrica aperta dell’occhio dipinto da Tadini che l’interroga sul tabù rilevato in Duchamp e Courbet. Se mi chiedeste ora perché un Emile così colto e cosi pittoricamente filosofico, o meglio filosoficamente pittore, stia risalendo con tanta vertiginosa scalata mentale verso, non dico le origini della pittura come pure parrebbe, non dico le scaturigini del dipingere come meglio gli si addice, ma verso, dico, il perché della pittura, risponderei semplicemente: per godersi un po’ più di verità. Se non m’appassiono ad analizzare, almeno nella presente occasione, j | linguaggio, anzi i linguaggi, in cui la pittura di Tadini si esprime, è perché resterei all’ostacolo del come dipingere, del come dipinge lui, il nostro pittore: non è davvero più il caso. Giacché qui ponesi, direbbe Testori, nel qual caso gli darei ragione una volta tanto, la questione della verità; o come tanto più perentoriamente ha detto Lacan. Dunque, perché si dipinge. È questa una domanda impossibile, beceramente ovvia, che non si può neppure articolare tanto è posta male, e che tuttavia ogni pittore vive, suda, violenta ogni giorno: e la sua pittura lo dà a vedere.
Perché io dipingo, lo hanno da sempre detto quasi tutti i pittori, e così pure come dipingo. Ma donde procede e dove si fonda «la necessità categorica della
Emilio Tadini
rappresentazione», come dice Tadini, questa è un’altra questione, e parecchio importante. (È vero, non si dà qui una risposta che sia accertabile. Se è solo per questo, non sapremmo neppure veramente rispondere al perché si mangia, perché si gode, e cosi via; talora può bastare un atto di fede: «io credo all’umanesimo del trou du cul», ha fatto sapere Dalì. Non è facile mettere l’occhio su recessi cosi oscuri, eppure bisogna guardare attraverso, guardare lontano). Per quanto mal posta, questa domanda, perche si dipinge, produce più d’una conseguenza dirompente, giacché l’energia che la innesca è di quelle che scindono ciò che è vero da ciò che non lo è, innescando nella centralità dell’io l’esplosione della generalità della specie, delle onde storiche della specie intorno all’io, con un bang primordiale che è il trauma e insieme la rimozione.
Ora non è vero che la verità dev’essere uguale per tutti. La verità è quella parte del sapere che sappiamo cos’è e che amiamo, difendiamo e irroriamo magari da soli e privi di prove. Non basterà tuttavia affermare, come faccio, che l’arte di Tadini si fa pittura come e nel mentre si fa approssimazione alla verità; che è dotata di un’etica elevata, di una precisa qualità etica qual è quella di giocare secondo regole dichiarate e non solo trasformate, o sedicenti tali, come è purtroppo il caso frequente in numerosi «inventori »… dell’avanguardia; lui che, anzi, ha messo in atto una sintesi delle regole e non-regole principali delle avanguardie del secolo e ne ha ottenuto un lievito linguistico che filtra e controlla con evidente piacere.
Che Tadini privilegi su ogni altro, e più di ogni altro forse tra i pittori contemporanei, il discorso della verità è cosa che in parte trascende questa parzialità che è la sua avventura di pittore. Non questa verità coprirà il vero della sua pittura, a dispetto di molti falsi monaci del bello d’avanguardia, bensì sarà la sua opera a incarnare tutto e oltre il privilegio della verità. È appunto quel che mi resta da discutere. Nei suoi quadri si configura da sempre quella spirale di figure e di concetti che ora, con questa grande tela del 78 intitolata L’occhio della pittura, si è di molto avvitata verso quel che ho chiamato il bang primordiale, e che è per Tadini: «la prima vista del grande corpo, che, diventando altrui, si muta in figura – il vedere primordiale da cui ha origine nel bambino l’atto e il senso del tracciare segni, e da cui voglio dire che ha origine la pittura». In altre parole, in Tadini ha agito fin dall’inizio la tesi e la maturità pittorica così ben perforanti oggi. Da sempre, l’epos di Tadini è la trama dei linguaggi avanzati elevati ad epos.
Questa è una novità: non l’avevo ancora detto (e se è per questo non l’hanno mai detto neppure gli altri) che a Tadini va riconosciuto il vasto sentimento di una moderna pittura epica; un’arte epica in cui, aggiungo, non è più tanto solo. Cosa vuol dire una pittura epica? Guardate anzitutto allo stile, che è il giusto dosaggio di un insieme: lo stile di Tadini è l’attraversamento di molti de: linguaggi d’avanguardia della modernità, direi: dal simbolismo alla figurazione saggistica che ho detto dianzi essere il dato originale di questo pittore. Ecco, i veli della parola si alzano e la scena del quadro è illuminata. L’Omero della modernità in arte è stato il movimento simbolista ed è li che s’innestano i procedimenti successivi. Il cubismo non è stato che un simbolismo filmato con le lenti per gli effetti speciali. Sulla superficie di Tadini resiste la bidimensionalità e molteplicità della figurazione cubista elevata a danza; poiché i veli sono caduti e con essi il tutto pieno della composizione cubista, la danza procede per moto proprio. Il movimento, che non è il moto ma quanto fa da raccordo tra un moto e un altro, eccolo iscritto nelle parole. Ancorché puramente intellettuale, l’uso delle parole da parte di Tadini in simbiosi con l’icone dà luogo a movimenti percettivi dello sguardo, a sommovimenti visivi che in qualche modo sono doppiati dalla sonorità propria della parola.
Come in Joyce e in quegli ultimi romanzi concessici dall’epoca che sono i récits psiconanalitici degli analisti, anche nel quadro di Tadini c’è l’universo dei particolari e dei frammenti; un universo che non è affatto narrativo, non è un racconto, e neppure veramente un saggio strutturato sul pensiero astratto, pur muovendosi come una spirale, come questo simbolo del movimento dialettico, in un tempo e in uno spazio densi di eventi e di memorie. Figurazione in quanto recitazione, potremmo aggiungere. Nell’universo omerico, privo della scrittura, si dice che l’epos e dunque la sua poesia fungessero da repertorio di conoscenze da tramandare: un’enciclopedia orale abilmente intessuta di eufonia e di retorica, tramata sul ciclo e sulla ripetizione, affinché potesse diffondersi e giacere nel grembo dell’etnos.
Mi pare che qualcosa di simile sia accaduto negli anni post-avanquardistici che viviamo. In questo senso, una possibile arte epica; in questo senso dico che il surrealismo è in Tadini una componente culturale molto meno importante, fortunatamente, di quella dada; il dada della casualità, ovvero dell’intero spettro del possibile ambiguo che qui vediamo addensarsi tra figura e figura, tra figura e parola, tra parola e parola; il ballet dada che nulla spartisce col serioso surrealista. L’equivoco sta forse nel fatto che a Tadini si riconosce poco uno dei suoi maggiori meriti d’artista: d’aver fatto in pittura quel che la lezione di Freud ha promosso nella morale, ossia di aver fornito d’una logica inusitata, e forse di un nuovo sistema, quell’irrazionale che non è solo più in noi: è anche nella risposta, se una risposta è possibile, alla questione del perché si dipinge.
Tommaso Trini
giugno-settembre 1978, per la mostra di E. Tadini alla galleria Studio Marconi di Milano
- La prima parte di questo testo fu pubblicata sulla rivista « Data » con il titolo «Se la pittura vede».
Tadini, Studio Marconi, Fondazione Marconi 1978 novembre
-
Francesco Tadini invita a visitare le mostre a Fondazione Marconi e allo Studio Marconi ’65.
Attualmente, presso Studio Marconi ’65, è in corso una esposizione di opere grafiche di Sonia Delaunay: 16 litografie a colori e Le coeur à gaze, i bozzetti dei costumi realizzati dall’artista per la pièce teatrale di Tristan Tzara, un dialogo surreale tra le varie parti che compongono il volto umano (occhio, bocca e naso) rappresentato per la prima volta alla Galerie Montaigne nel 1921. L’esposizione di grafiche accresce e completa la mostra allestita alla Fondazione Marconi dove sono presentate circa cento gouaches realizzate dall’artista tra il 1923 e il 1934. Durata mostra: 23 febbraio – 31 marzo 2012. Orari: martedì – sabato dalle 15 alle 19.
-
Francesco Tadini, che per questa diffusione web ringrazia vivamente - come sempre – la dottoressa Melina Scalise (giornalista e attuale presidente di Spazio Tadini di Milano, con la quale programma mostre, manifestazioni d’arte, presentazioni editoriali), chiede garbatamente un click indirizzato al seguente LINK per essere al corrente dei prossimi appuntamenti di Spazio Tadini e della rassegna Spazio Corpo Potere pensata insieme alla coreografa (nonché socia di Spazio Tadini) Federicapaola Capecchi. Qui il LINK alla presentazione dell’intervista al coreografo israeliano Emanuel Gat, uno dei maggiori della scena internazionale, a Spazio Tadini per l’occasione.
-
Infine Francesco Tadini consiglia di leggere: un passo della presentazione di Umberto Eco alla mostra di Palazzo Reale a Milano di Emilio Tadini: click qui: LINK
Francesco Tadini
-
-
-