Francesco Tadini accresce l’Archivio web sull’opera di Emilio Tadini con un testo dal catalogo creato in occasione di un’esposizione del 1974 alla galleria Studio Marconi di Milano - E. Tadini: 1- II movimento del reale si ferma nella pittura – nella pittura che non finga di essere altro da quello che è. Ma, nella pittura, il movimento del reale e negato perché possa prendere forma altrove, per opera di altri. Perché il processo della contraddizione va ancora avanti, di colpo, quando qualcuno guarda il dipinto, e lo nega (e nega prima di tutto l’autore). Quando qualcuno oppone all’immobilità dell’immagine la mobilità dello sguardo — la mobilità del discorso che è già comunque in quello sguardo sul dipinto. (Museo come testo – come fulminea inerzia per la coscienza. In questo testo non può, letteralmente, essere detta «l’idea» dell’uomo). >>
2 – Movimento non come uno stato indotto in una realtà che tenderebbe per sua natura alla inerzia: movimento come struttura stessa del reale, come condizione del reale. Movimento che non accade in una dimensione: movimento che è la dimensione in cui il reale accade. Movimento che è il reale. Tale dovrebbe essere il significato fondamentale di questi dipinti, il loro significato percepibile più immediatamente, nel disporsi dello sguardo entro tutti i piani che compongono lo spazio. (Lo spazio non è — neanche per la pittura — un vuoto da colmare, e non è neanche una metamorfosi topologica dello spirito. In principio, per la pittura, non c’è spazio. Ci sono soltanto la superficie e la dimensione della tela. E, in principio, nella pittura non si vede niente altro.
3- Un testo è surdeterminato: 1° dalla varietà e complessità dei materiali che partecipano alla sua strutturazione (compresi quelli che in conclusione non sono utilizzati). 2° dalla serie di letture che — anche non criticamente, anche automaticamente — scattano nel momento stesso in cui il testo « entra in rapporto con il mondo », per minimo che sia questo rapporto. Entro la serie delle letture — e non altrove — si colloca la lettura di chi ha composto il testo. L’apparenza di una determinazione unica e univoca, assoluta e incorruttibile, potrebbe essere, per assurdo, solo di un testo che «lo spirito», mostrandosi, distruggesse. Ma questa è l’ipotesi di ogni vacanza mistica. (Oppure, a un livello più basso, l’ottusa conclusione reazionaria di certi nipotini di Gentile attualmente alla moda, secondo i quali, in arte, non sarebbe questione di forma — cioè di linguaggio, quale che esso sia — ma di « pensiero ». Una parodia involontaria della proposizione idealistica secondo la quale la storia sarebbe fatta non dai conflitti reali ma dallo spirito).
4 – II discorso che incomincia dal dipinto, a partire dal dipinto, è altrettanto libero e significativo del discorso che arriva al dipinto, che in esso si conclude. Si potrebbe dire che in questo senso il dipinto è una pausa: nella sua doppia funzione di chiudere e di aprire – di separare, di mettere contro. (Come se il dipinto — ogni testo — fosse, anche, una specie di assenza enfatizzata e provocatoria. Il che non toglierebbe niente alla sua concretezza).
5 – L’idea di una chiarezza assoluta e non equivoca, cui niente si opponga, di una chiarezza come «risultato definitivo» , di una chiarezza che per sua natura possa astrarsi da conflitti e complicazioni, è un’idea di origine positivista — non certo materialista. (E non per niente questa idea fa parte di tutti i sotto-miti tecnologici). In un testo, alla chiarezza si oppone l’oscurità — non l’incomprensibilità. Nella realtà di un testo, l’oscurità può essere espressiva quanto la chiarezza: contro la chiarezza. Nella realtà di un testo, nel suo processo, l’oscurità nega di continuo la chiarezza rivelandone di continuo l’inattualità. Così agisce il futuro sul presente.
6 – Ci sono molte associazioni, molti richiami ad altro, in questi dipinti. Non è indispensabile rendersene conto, per leggere i dipinti. E’ stato indispensabile che quelle associazioni e quei richiami agissero perché i quadri fossero dipinti. Tutti questi richiami, riferimenti e associazioni non formano — per usare un’immagine — il terreno entro il quale il testo affonderebbe le sue radici per nutrirsi. Sono piuttosto — per usare un’altra immagine — il liquido sul quale il testo galleggia. (Dire che una pittura in cui agiscono riferimenti a un altro ordine di testi è « letteraria » è una astuzia di tipo burocratico — che potrebbe portare a definire intellettualistico il comportamento del primo homo sapiens. D’altra parte si può capire come l’idea secondo la quale il pittore sarebbe una specie di idiota gonfio di « sensibilità » possa rivelarsi opportunamente consolatoria per molti idioti e per molti pittori).
7 – Joyce e Celine entrano ogni tanto nella storia (« Finnegans Wake » letto, per forza, press’a poco come si legge « I Ching ») Joyce e Celine come una coppia di contrari, perché di una coppia di contrari ci si può servire come di una carica per bombardare l’indivisibile, l’atomo del reale, e farlo esplodere in energia. (Così avrebbero dovuto agire i quadri di Malevic e le maschere africane, messi insieme in un’altra serie di dipinti). In questa serie, le facce sono maschere — perché il soggetto della totalità è plurale, e la maschera è la faccia di un soggetto plurale, perché con una maschera si assume una identità collettiva. « Time », con altri attrezzi sul tavolo, vuol dire il tempo, e « Pour parler frane » sono le prime parole di « D’un chàteau l’autre » e « Strano ora pensare a te, andata via senza busti né occhi » è il primo verso del « Kaddish per Naomi Ginsberg » scritto da Allen Ginsberg per la madre morta. N.G. sono le iniziali di Naomi Ginsberg, e T sul cappello a visiera è l’iniziale del nome Tancredi. Il fenicio « morto per acqua » è « alto e ben fatto come te» nella «Terra desolata ». E proprio qui le parole giocano di più tra loro — « scorrettamente », appunto, per un dipinto —: sea, sì, river, rive, e ivre è il battello. E’ alla festa nella taverna di Finnegans che compare HCE, il nome fatto di iniziali che si trasferisce cambiando a definire molti personaggi in uno, Here Comes Everybody, Haveth Childers Everywhere… E Celine parla di una sua giacca blu «modello Poincaré» che lo seguì in « quatorze années d’avatars » senza sciuparsi. Vestito e nome, parola. Essere nudi è essere senza parola, come dice Ogotemmeli in « Dieu d’eau ». E Saint-Pierre et Miquelon è il nome delle isole di cui il dottore francese si fece nominare governatore in cambio di un po’ di veleno in mezzo a tutti i collaborazionisti ammucchiati terrorizzati nel castello tedesco. Due volte la parola bar dà il suono di « barbaro » in francese — la prima età di Vico. E ogni personaggio assume vari ruoli, anche maschile e femminile, anche maschili e femminili insieme: si fa a pezzi l’eroe nelle sue apparizioni, mutilato, distrutto, partecipato (finché il mito della castrazione si capovolga in mito della rinascita). Il mito « sub specie temporis nostri », come diceva Joyce — e pare certo che non volesse alludere a una festa in costume. E’ così che Celine diventa Dutch Schultz, il gangster, e dice lui le ultime parole di Dutch Schultz, ferito a morte in una sparatoria con la polizia, a Newark, febbricitante (febbre a 40) all’ospedale, in un lungo monologo trascritto da un sergente di polizia: « I don’t want harmony. I want harmony ». William Borroughs voleva farne un film, e scrisse una sceneggiatura intitolata « The last words of Dutch Schultz » (Destouches). Ma « fièvre pas fièvre » sono parole tolte da « D’un chàteau l’autre». E avanguardia è una parola difficile da leggere al contrario — come la firma di Saint-Just sotto il costume costruttivista dell’attore. Voce e corpo erano separati sulla scena del teatro romano. Un attore faceva il corpo e l’altro la voce. E gli oggetti si trovavano per strada — questo abbastanza semplicemente — e diventavano altro. Qualche associazione, qualche spostamento. Tutto fermato, chiuso nella trasparenza inerte della pittura. La pittura già disponibile — come un materiale — a tutto ciò che un’altra volta le si oppone.
E. Tadini
Francesco Tadini Archivio: Emilio Tadini
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Francesco Tadini invita a visitare le mostre alla Fondazione Marconi e allo Studio Marconi ’65.
Scrive lo stesso Giorgio Marconi in una presentazione del sito (LINK): ”Ho aperto il 30 settembre 2010, in via Tadino 17, un piccolo spazio: Studio Marconi ’65 (come la mia vecchia galleria Studio Marconi che avevo aperto nel 1965 e chiuso nel 1992). Nel frattempo è nata la Fondazione Marconi che sta svolgendo un programma piuttosto esaustivo di mostre e antologiche relative al lavoro di un numero selezionato di artisti (tra i quali Tadini, n.d.r.) di cui mi sono occupato nei miei quasi 50 anni di attività. Ci sono molti spazi e gallerie con proposte di Arte Contemporanea (a Milano più di 170) ma è difficile vedere opere degli artisti degli anni tra i ’50 e i ’80. Penso quindi, in questo “piccolo spazio”, di dar modo al pubblico dei collezionisti, specialmente dei più giovani, di vedere e conoscere opere, progetti, disegni e anche multipli e grafiche, il lavoro di artisti del recente passato.” Giorgio Marconi-
Attualmente, presso Studio Marconi ’65, è in corso una mostra di grafiche di Sonia Delaunay: 16 litografie a colori e Le coeur à gaze, i bozzetti dei costumi realizzati dall’artista per la pièce teatrale di Tristan Tzara, un dialogo surreale tra le varie parti che compongono il volto umano (occhio, bocca e naso) rappresentato per la prima volta alla Galerie Montaigne nel 1921. L’esposizione di grafiche arricchisce e completa la mostra allestita alla Fondazione Marconi dove sono presentate circa cento gouaches realizzate dall’artista tra il 1923 e il 1934. Durata mostra: 23 febbraio – 31 marzo 2012. Orari: martedì – sabato dalle 15 alle 19.
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Nata nel 1885 in Ucraina, Sonia Delaunay vi attinge quelle indimenticabili visioni colorate, costantemente presenti nel suo lavoro. Sono i colori dei vestiti dei contadini russi a rimanerle impressi nella mente e la coperta in patchwork che realizzerà nel 1911 per il figlio Charles ne è testimonianza.
Traferita a Parigi nel 1905, subisce il fascino e l’influenza delle opere di Van Gogh, Gauguin e del fauvismo, che trasporrà nel suo lavoro in maniera del tutto originale. Nel 1909 conosce Robert Delaunay – che sposa nel 1910 – con cui condivide una passione assoluta per la pittura e per il colore come essenza della pittura. Scrive Robert Delaunay “ Il colore, che è frutto della luce come ha scritto Apollinaire, è alla base dei mezzi materiali del pittore – ed è il suo linguaggio. Il pittore quindi, lavora con il sussidio di elementi fisici, che la sua volontà deve dominare nel suo complesso”. I colori, distribuiti sulla superficie del quadro creano tra loro delle relazioni che si ricreano nell’occhio dello spettatore, “quello che generalmente si chiama mescolanza ottica”.
Le loro ricerche basate sulle teorie del colore di Chevreul e sulla rifrazione della luce approdarono al movimento chiamato orfismo.
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Spazio Tadini, Milano, l'associazione fondata da Francesco Tadini
Francesco Tadini, per questa pubblicazione on line è grato – come sempre - alla dottoressa Melina Scalise (giornalista e attuale presidente dello Spazio Tadini, associazione culturale non profit di Milano, con la quale pianifica mostre, manifestazioni d’arte, presentazioni editoriali). Si raccomanda un’occhiata a questo LINK per conoscere i prossimi appuntamenti e la rassegna Spazio Corpo Potere ideata insieme alla coreografa (e socia di Spazio Tadini) Federicapaola Capecchi.
In ultimo, Francesco Tadini suggerisce un link: testo di Lina Sotis dal libro Torno Subito, dedicato a Emilio Tadini
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Francesco Tadini