VALLENFYRE – Splinters (Century Media)
Quandò nel 2011 Gregor Mackinthosh tirò su questo progetto con l’ormai compagno di band Adrian Erlandsson e l’ex My Dying Bride Hamish Hamilton Glencross, rimasi strabiliato dal recupero filologico di quel sound cupissimo e disperato che aveva caratterizzato il gothic metal britannico nei primissimi anni ’90. A Fragile King restituiva ai vecchi fan le indimenticabili atmosfere di Lost Paradise e Gothic con la cognizione di causa di chi quel genere lo aveva inventato. Splinters, da questo punto di vista, è una mezza delusione. Quel suono di chitarra rimane inconfondibile ma la scelta di premere sull’acceleratore non ha pagato. Canzoni come Scabs e Odious Bliss sono, gratta gratta, death pestone alla Entombed con più rallentamenti del solito, ben suonato ma banale, e i pezzi più suggestivi sono proprio quelli più doom e dilatati (Bereft). Un passo indietro rispetto ad A Fragile King, un po’ per le scelte stilistiche e un po’ perché l’effetto sorpresa è venuto meno. Tra l’altro, a quanto ha spiegato lo stesso Nick Holmes (che, con i Bloodbath, deve avere anch’egli ripreso il gusto per l’estremo), pure il prossimo lavoro dei Paradise Lost dovrebbe avere un’impronta maggiormente death metal. Vedremo.
MORBUS CHRON – Sweven (Century Media)Lo dovevo recuperare a ogni costo perché Tompa li cita spesso nelle interviste tra i suoi gruppi preferiti e devo dire che il cantante degli At The Gates dà ottimi consigli. Al secondo full (l’esordio Sleepers In The Rift è del 2011) la band di Stoccolma è riuscita a sviluppare un sound incredibilmente personale, allo stesso tempo modernissimo e fortemente ancorato alle radici della scena estrema scandinava. Poco più che ventenni, i membri dei Morbus Chron sposano un retroterra metallaro inattaccabile con un’apertura serena a generi estranei, come proprio della parte più illuminata della loro generazione. Aurora In The Offing inizia con un attacco alla Autopsy, deraglia in una cavalcata black metal, erompe in uno stacchetto deliziosamente svedese e termina con un arpeggio che potrebbe uscire tranquillamente da un album degli Unanimated. I pezzi più melodici e rilassati, come It Stretches In The Hollow richiamano il post metal psichedelico alla Pelican, quelli più sostenuti (Chains) rimandano al techno-death d’antan dei Gorguts. Dischi così originali e ricchi di idee sono, di questi tempi, merce rara. Se non avessi ascoltato Sweven così in ritardo, lo avrei sicuramente messo in playlist.
CRETIN - Stranger (Relapse)Questo disco è piaciuto a un sacco di gente, compreso il fiero e potente Luca Bonetta, ma continua a non convincermi nemmeno dopo ripetuti ascolti. Per quanto possa starmi simpatica la gente che ci suona (il bassista Matt Widener, il cui progetto solista Liberteer sembra invece essere garbato solo al sottoscritto, e la cantante transgender Marissa Martinez, passata di recente per i Repulsion), Stranger mi ha annoiato ancor più del debutto Freakery, complice forse un debito nei confronti degli ultimi Napalm Death che si è nel frattempo appesantito. Tanta piattezza dipende in parte dai suoni inadeguati, che smorzano sia l’aggressività che il tiro potenziali di un album che non si distacca mai davvero dalla media delle produzioni grind blastone sulle quali la Relapse sta, ultimamente, insistendo un po’ troppo. Chissà come sono dal vivo.
ATRIARCH – An Unending Pathway (Relapse)Concittadini di Agalloch e Red Fang, gli Atriarch sono al terzo disco e suonano un curioso ma accattivante mischione di funeral doom e death rock anni ’80 alla Christian Death. Sulla carta è un crossover bizzarro ma il quartetto di Portland riesce a farlo funzionare dosando a dovere le diverse componenti di un bagaglio di influenze dove trovano spazio i Katatonia quanto i Killing Joke. An Unending Pathway parte con i sommessi accenti dark wave di Entropy, poi la tensione sale progressivamente per esplodere nel parossismo black di Bereavement, sfumando infine in un paio di brani più classicamente doomeggianti. Non per tutti i gusti ma dotati di un certo fascino decadente e sbilenco, un po’ come certe donne. Almeno un ascolto per curiosità lo meritano.
ARMAGEDDON - Captivity & Devourment (Listenable)Povero Christopher Amott. Abbandonati gli Arch Enemy (sarebbe interessante scoprire il motivo), ha riformato il suo vecchio gruppo e ha già perso per strada un membro, il cantante Matt Hallquist, uno dei ragazzetti americani reclutati per la bisogna. Perché americani, poi? Nessun svedese vuole più suonare con lui dopo la sua militanza nella band del fratellone Michael? Per chi non se li ricordasse, gli Armageddon tirarono fuori tre album dal 1997 al 2002 e suonavano una sorta di rilettura svedese del death tecnico. C’erano troppe chitarre per i miei gusti ma il risultato, all’epoca, non mi dispiacque. Captivity & Devourment ripropone la stessa formula con una maggiore attenzione per le strutture ritmiche e un approccio inevitabilmente aggiornato. Il dischetto non è da buttar via ma, se non è il vostro genere, rischia di stancare abbastanza in fretta e, a furia di fare zigzag tra riferimenti old school e le dovute concessioni al gusto moderno, ogni tanto inciampa.
CARCASS – Surgical Remission/ Surplus Steel (Nuclear Blast)
Ai tempi della pubblicazione di Surgical Steel, i Carcass avevano spiegato che alcune delle canzoni registrate erano state escluse dalla tracklist finale perché troppo lente e melodiche per i toni del disco e sarebbero finite prima o poi in un mini. Eccolo. In realtà su quattro pezzi (non contiamo una reprise di 1986) l’unico vero inedito è Livestock Marketplace. Zochrot era uscita nella serie flexi disc di Decibel, A Wraith In The Apparatus era la bonus track giapponese, mentre Intensive Battery Brooding (forse la migliore del lotto) costituiva la b-side del singolo Captive Bolt Pistol. Le emozioni sono pochine ed è roba che impallidisce di fronte agli scarti delle sessioni di Swansong apparsi sulla compilation Wake Up And Smell The… Carcass. Se amate la band, sarà tuttavia molto difficile non procurarsi questo ep e poi spararselo a prescindere otto volte di seguito.