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Frattale

Creato il 13 marzo 2015 da Philomela997 @Philomela997

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“(…)Now you’ve all the light
still I feel you, by my side
nothing’s useless now
friends have always time to try
the safest hands hold me
now I wander far “

(I’m not afraid – Skunk Anansie)

C’era una volta, o forse due o tre, o forse mille, o forse c’è ancora e ci sarà per sempre.
C’era un amore che era iniziato un po’ così,  in sordina, dietro a maschere di legno e ghiaccio.
Era iniziato in una foresta, e  c’erano le stelle, e la pioggia.
C’erano racconti tanto belli che sembravano fili di lana luminosi, c’erano costellazioni che fino a un attimo prima sembravano impossibili.
E poi c’era l’amore, che non era amore.
Ma era bello come l’amore e vero più dell’amore.
C’era questa serenata di fondo, che ripartiva in loop ogni volta e non finiva mai, mutava solo volume.
Lei sapeva che c’era sicuramente un violino, in quella serenata; lui forse, qualche volta, ci aveva sentito un contrabbasso.
C’era il freddo infame che pervadeva sempre un po’ tutto.
E questa storia che ripartiva sempre da capo.
E finiva sempre nello stesso modo.
Con uno zaino, una fuga e un treno.
E un sacco di silenzio.
Il silenzio era il controcanto di quella serenata, pervadeva tutto e sempre, cambiando solo sapore.
A ogni fine il silenzio aveva il sapore amaro della bardana, dopo ogni inizio, invece, sapeva di ciliegia….e quando arrivava al culmine, oh si, al culmine sapeva sempre di zucchero filato e mattine di sole.
Anzi, di una mattina di sole.
La prima.
Quel ricordo aveva il suono della sua voce impastato con i raggi dorati del più bel sole del mondo.
E poi c’era sempre quella distanza immensa, quando la storia arrivava al suo culmine, come se fossero così vicini da potersi QUASI toccare.
Lui la guardava sempre con quello sguardo triste e un po’ colpevole, che sembrava dire “scusa, ma non posso amarti”, lei aveva sempre quello sguardo ferito da “io lo so che c’amiamo”.
E finiva sempre nello stesso modo.
Con uno zaino, una fuga e un treno.
E la silenziosa promessa reciproca che quella volta sarebbe stata l’ultima.
Ma non lo era mai.
Un bambino capriccioso chiudeva di botto il libro e ricominciava a sfogliarlo dalla copertina.
E lei capiva, adesso, perchè la prima pagina del libro dicesse solo: “nostalgia”.
E allora ecco di nuovo le chiacchiere alla luna, i sogni, i sorrisi; ecco di nuovo le mattine di sole, le colazioni e le notti di pioggia.
E di nuovo quello sguardo ingenuo, imbarazzato e interrogativo.
Quel silenzio in cui lui la spogliava pezzo pezzo di ogni indumento.
Iniziava sempre mentre lei era seduta in cucina, la sigaretta tra le mani,  con gli occhi, lentamente, le faceva scivolare giù la spallina della maglietta, scoprendole una candida spalla, e poi, pian piano, si strappavano a vicenda ogni pezzo, meno che le maschere.
Le maschere si toglievano solo in camera da letto.
E poi erano nudi, e felici, e si stava bene, e fuori pioveva, ma la mattina dopo, lo sapevano, sull’asfalto bagnato, ci sarebbe stato il sole.
Ed erano così vicini da potersi QUASI toccare.
In quei momenti senza le maschere, lui era capace di dire cose belle.
Quando lei si arrendeva alle sue mani e si lasciava sfilare il profilo ligneo lui la guardava con occhi immensi, e allora lei sapeva d’esser bella. E speciale. Speciale come forse non lo era mai stata nessuna prima.
E quando le mani di lei gli strappavano la maschera lui sapeva d’esser forte, come non lo era stato mai.
E poi, a loro, del resto del mondo non importava niente.
A volte, di notte, quando le braccia calde di lui le circondavano i fianchi, stringendosela al petto con fare geloso, lei fissava fuori dalla finestra l’oscurità della notte, che aveva inghiottito tutto, e si chiedeva se in verità continuasse a esistere, il resto del mondo, lì fuori.
Ma dopo la miliardesima volta sapeva già come sarebbe finita, con questo amore che muore all’alba, prima di diventare amore.
Ma ogni volta era lo stesso, la stessa musica, lei si perdeva nei riccioli della serenata ed era di nuovo: feriscimi, che mi importa? Per un momento, un’ora, un giorno senza maschera, io butto tutto al vento.
E le parole di lui non dicevano, ma le mani no, non sapevo mentire; le sue mani dicevano sempre la verità.
E la dicevano chiara.
La dicevano stretta.
Dicevano: sei mia, mia, mia. Mia come non lo è mai stata nessuna.
Sei mia perchè ti voglio, perchè sei unica, perchè sei speciale.
Nel più profondo anfratto di te, sai di essere mia, e non ti voglio dividere con nessuno.
Sii mia, mia, mia.
E lo diceva senza parlare, quando la stringeva fino a toglierle il fiato, in piedi nella stanza, in cucina, nel letto, non faceva differenza.
E lei non s’arrabbiava, perchè era vero.
Perchè ogni anfratto di lei rispondeva: tua, tua, tua, niente altro che tua.
E poi succedeva, l’incanto si rompeva.
Era come una clessidra che finiva il tempo, o un confine oltre il quale non si poteva andare.
E allora faceva male, e il silenzio era pieno di sguardo sfuggenti.
E lei raccattava i pezzetti di cuore schizzati per tutta la stanza e li rimetteva nello zaino, pensando che altrove, con calma, li avrebbe ricomposti, correva via, e inciampava sull’asfalto bagnato della strada, perchè aveva gli occhi pieni di lacrime, e solo sul treno tirava il fiato, che quel mostro d’acciaio che la portava lontano le dava un po’ di sollievo.
Perchè altrove poteva quasi fingere che non esistesse un amore-non-amore tanto perfetto, tanto bello, tanto caldo.
Poteva scordarsene, come faceva lui.
Ma poi la nostalgia trillava come un campanello infame, e allora ogni scusa era buona per cercarsi.
E sfogliavano riviste di moda francese, indicandosi a vicenda gli amanti avuti.
Raccontandosi quanto erano belli e perfetti e immaginifici, ma sapevano che nessuno aveva quel sapore. Familiare e intimo.
Perchè nessuno sapeva davvero cosa ci fosse, oltre le maschere di legno.
E d’improvviso il nastro era di nuovo a quel punto inceppato.
Quel punto in cui lei si chiedeva perchè fosse andata così lontano a cercare qualcosa d’altro, che la perfezione era già tanto vicina.
E lui, guardandola, pensava che era bella, la più bella, che avesse mai visto.
Bella fuori, si, lo era, ma che dentro risplendeva d’infinito.
E per due giorni il mondo non era altro che musica e poesia.
Equilibri estatici e perfetti che la natura sembrava non in grado di costruire altrove.
E allora, per due giorni, fioriva in un palazzone di cemento della periferia l’amore più perfetto che fosse mai esistito.
Se ne stava tutto in una stanzetta di pochi metri quadri, ma dentro, dentro quei corridoi, su per i piani troppo alti, nell’ascensore troppo piccolo, esplodeva d’immenso.
Sulla banchina della metro, a un angolo di strada pieno di spettri che imitavano la city, sotto la pioggia di una notte di febbraio, alla fermata del tram.
E illuminava tutte quelle cose di una luce calda e familiare.
E allora non c’erano più errori, né imperfezioni.
Allora si guardavano come non s’erano mai guardati prima con nessuno.
E, a volte, le parole esplodevano argentine come i sorrisi.
Di sicurezza, di tenerezza.
E sapevano che s’erano amati, che s’amavano, che si sarebbero amati ancora.
E allora era tutto: “guardami, osservami, spogliami di tutte le maschere, amami così come mi vedi, così come sono, senza nemmeno una maschera, senza nemmeno una bugia”.
E s’amavano.
Del più vero e bello e ingenuo degli amori.
E seduta nella luce dell’alba, in quella cucina di periferia, con la tazza del caffè in mano, lei pensava che nessuno, questo amore, l’avrebbe mai visto e raccontato.
Che non ci sarebbero stati poeti, né tragedie, che forse, fra 300 anni, le ragazzette del liceo avrebbero continuato a sognare di Romeo e Giulietta, senza sapere, che trecento anni prima, in un palazzone grigio di una periferia, in due giorni di pioggia, s’era consumato il più grande amore di tutti i tempi.
E poi, in una sera buia e con la pioggia, la serenata arrivava al suo culmine.
Piena di scale e violini, piena di suoni, di poesia, di note.
E questo amore-non-amore che sembrava perfetto, maturo, sul punto di esplodere e sommergere tutto.
E allora il mondo non avrebbe importato.
E allora, il mondo, sarebbe stato perfetto.
E allora via le maschere, nudi, smaniosi, sublimi.
Ed erano tanto vicini da potersi QUASI toccare.
E quando ci provavano qualcosa feriva come una scossa elettrica.
Una stilettata al cuore.
“Scusami, ma non posso amarti”
“Ma io lo so, lo so, che c’amiamo”
E poi la strada, l’alba, le lacrime, l’asfalto bagnato, la caduta, le ginocchia sbucciate, la lettera sul tavolo.
E la promessa silenziosa che basta, che era l’ultima, che non ci avrebbero provato più, ad amarsi.
Perchè faceva troppo male.
Perchè più di ogni altra, questa cosa, esplodeva i cuori in un milione di pezzi.
E allora via, via, via, lontano, altrove, per dimenticarsi, per fare finta che non esistesse, che non fosse mai esistito, questo amore-non-amore così perfetto.
A fingere che esistessero cose meglio.
E poi, di colpo, una sera di tre mesi dopo, il volume della serenata si alzava all’improvviso, dapprima lieve, e poi sempre più forte, e aleggiava nei giardini, nelle strade di città lontane, e nelle notti tormentava e non faceva dormire.
E ignorare quel suono diveniva vitale, lo chiudevano fuori dalle porte e dalle finestre, si raccontavano che era felici.
Finchè una sera, davanti alla macchina da scrivere, qualcosa cambiava, mentre fuori pioveva forte.
E allora…. “Ciao, come stai? Ti pensavo”
“Ti pensavo anche io”
“Mi manchi”
“Anche tu mi manchi”
“Torni?”
“……..Si, torno.”
E di nuovo le chiacchiere alla luna, di nuovo “nessuno è come te, per me”, “lo so, perchè nessuna è come te, per me”.
E di nuovo, in punta di piedi sulle scale di quella periferia.
Di nuovo la consapevolezza che tutto il prima era stato un po’ più finto, che solo questo pareva vero.
Di nuovo la consapevolezza che s’erano amati, si amavano, e si sarebbero amati. Senza amarsi mai davvero, amandosi per sempre.


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