Io che ho sempre preso sul serio il rock, o almeno c’ho creduto per buona parte della mia vita, per anni non mi sono fidato granché di chi si burlava della gente che oltre a investirci i risparmi avrebbe scelto anche di morire per la musica. Quelli che scrivevano i passaggi delle canzoni in cui si riconoscevano sul taglio davanti dei libri di scuola, che collezionavano i dischi, che facevano le distinzioni tra mostri sacri e demiurghi e inascoltabili, un contesto in cui quelli come me ricoprivano il ruolo di sacerdote, non vedevano di buon occhio la promiscuità tra musica e cabaret, quel modo di sdrammatizzare la passione del rock con la satira e l’ironia a cui qualcuno, un giorno, ha dato il nome di rock demenziale.
Se ti impegni in una cosa e qualcuno ride quando la fai hai fallito, a meno che il tuo scopo sia quello. Far ridere. Ma che c’entra col rock. Il rock non ride. Piange, si ferisce volontariamente con le lamette fino a sanguinare, si spara in bocca, si ammala e muore di malattie che nel mondo dei settori produttivi che si imparano a scuola non esistono e non interrompono le carriere dei professionisti. A maggior ragione, che spreco se sotto c’è un potenziale musicale dirompente, addirittura punkettone, e sopra testi in italiano a cazzo. Parolacce, nonsense, battute, nichilismi, disimpegno.
Guardate che la gente vi ascolta e vi giudica, gli dicevo a quelli come gli Skiantos e a quelli che ascoltavano gli Skiantos. Capisce i vostri testi e vi prende per idioti. Voi che a differenza di Vasco siete dalla parte giusta e sprecate energia e risorse verso il nemico sbagliato. Gli Skiantos erano quelli che avevano superato a sinistra il rock, come era successo nella politica con gli autonomi di “Io sono un autonomo”.
Quello che non si capiva era che gli Skiantos erano l’unica band che almeno un po’ aveva tirato fuori la testa dai tombini dall’underground, e che spreco che si trattasse proprio di un gruppo che non faceva le cose a modo, seriamente, con testi come dovevano essere. Poi in realtà erano conosciuti proprio per quello. Che poi è stata la stessa cosa che mi hanno trasmesso Elio e le storie tese quando sono usciti. Cazzo, potrebbero essere dei nostri, ma non certo a parlare di quei temi lì e in quel modo.
Ma era un fattore legato all’età. Pian piano poi ho cominciato ad ascoltare bene le parole delle canzoni, a prestarvi attenzione. A tutte, le canzoni. Di ogni genere e in italiano. E a trovarle sempre più demenziali. Ma non solo quelle dei Pooh, ma anche quelle dei Litfiba. E dei CCCP. Sempre più didascaliche. Sempre più retoriche. Sempre più imbarazzanti. Sempre più in italiano cantato, che è una finzione, una convenzione dell’italiano letterario, una licenza poetica che nessuno gliel’ha autorizzata a chi fa il rock. Fino a quando ho detto basta. I testi mi piacciono solo in inglese e americano, almeno di quelli si capisce solo il senso generale, il resto rimane sotto la musica. Ecco.
Poi c’è stata qualche altra occasione in cui Freak Antony, Dandy Bestia e il sottoscritto ci siamo sfiorati per poco, qualche grado di separazione che ci ha ridotto le distanze, si vociferava persino un loro interessamento in qualche progetto in cui ero coinvolto, ma niente di più. Ora il rock non lo prendo più sul serio, quello italiano addirittura mi sembra grottesco, e in questo quadro, caro Freak, i tuoi vaneggiamenti giganteggiano. Non c’è dubbio, poi, che tu nella vita ti sia divertito, molto più di me (che comunque non ci vuole molto).