27 agosto 2013
(5 Dicembre 1890 ,Vienna- 2 Agosto 1976 Los Angeles)
Il cinema di Fritz Lang è tra i più permeati di amarezza e pessimismo della storia del cinema; questo spiega anche l’insuccesso soprattutto dei suoi ultimi film.
L’ossessione per la giustizia sommaria, per il tempo, il tema del delitto e la figura del criminale , le atmosfere cupe ed espressioniste sono il marchio di riconoscimento di questo grande regista che ha saputo trovare fortuna anche nella perversa industria hollywoodiana, per sfuggire alNazismo.
Proveniente da un’agiata famiglia viennese ( padre architetto che avrebbe voluto che il figlio seguisse le sue orme), Lang per un po’ si dedica alla pittura, per poi darsi alla sceneggiatura. E’ però coinvolto in un tragico incidente, quando la prima moglie, dopo averlo sorpreso insieme alla sua giovane collaboratrice, si toglie la vita con un colpo di pistola al cuore. Per un certo periodo la polizia sospetta di Lang , da qui forse, l’abitudine del regista di tenere sempre con sé un diario dove annotava meticolosamente tutto ciò che gli accadeva durante la giornata , nonché l’ossessione del tempo che si ritrova in quasi tutti i suoi film, attraverso orologi e calendari.
La sua prima prova registica risale al 1921 con il film “Destino” dove il tema in evidenza è la lotta degli uomini contro la Morte, immagine che sarà ripresa anche ne “Il settimo sigillo” di Bergman; segue il duro melodramma criminale “Il Dottor Mabuse” (1922), suo primo capolavoro (e primo film della trilogia dedicata a questa figura malefica insieme a“Il testamento del Dottor Mabuse” e“Il diabolico Dottor Mabuse”) è una rappresentazione realistica della Germania alla fine della seconda guerra mondiale. Il 1924 è l’anno de “ I Nibelunghi”il cui filo conduttore è il destino : scritto da Thea von Harbou (sua seconda moglie) prende spunto dall’omonimo poema germanico del 12°-13° secolo, alla saga di Norse e ad altre fonti, e si divide in due parti. Rigoroso, lento , solenne, monumentale, dove i personaggi sono ridotti a componenti figurative, avendo l’architettura un ruolo cosi preminente dal punto di vista drammaturgico.
“ Metropolis” del 1927 è la città modello del futuro diretta da una casta dittatoriale di uomini ricchi e felici mentre schiavi robotizzati lavorano a ritmi serrati nei sotterranei; questi ultimi vogliono ribellarsi ma sono dissuasi da una giovane donna, Maria che teme il loro massacro; tuttavia uno scienziato fabbrica un automa simile alla ragazza per incitare il popolo a rivoltarsi; ciò avviene ma la città viene salvata dal figlio del padrone , che sposerà Maria. L’interclassismo risolve tutto. E’ fortemente attratto dalla tecnologia Fritz Lang e lo dimostra ancora una volta con “Il mostro di Dusseldorf” del 1931: un assassino (l’indimenticabile volto di Peter Lorre) uccide delle bambine attirandole a sé fischiettando un macabro motivo senza lasciare traccia di sé. Verrà scoperto da un venditore di palloncini che , con un gesso, gli segna sulla spalla una grande M che sta per Morder (assassino). Ispiratosi a fatti veri, “Il mostro di Dusseldorf” ha fatto scuola, rappresentando l’antesignano del genere serial-killer, sorprendentemente moderno per dialoghi , sonorità ed effetti fotografici.
Sa adattarsi perfettamente agli imperativi del sistema hollywoodiano, Lang, realizzando un film capace di cogliere i punti di vista di tutti; il suo primo film negli USA , che non sbaglia: “Furia” del 1936, potente ed amaro dramma sociale dove il regista esprime le sue idee sull’America, sulla giustizia e la sua relatività ,la colpa e la vendetta, l’intolleranza, il provincialismo , attraverso la lotta solitaria di un uomo innocente contro i suoi persecutori. Non si discosta di molto il suo successivo film “Sono innocente” del 1938, dove un uomo con dei precedenti penali, pronta a rifarsi onestamente una vita con la sua fidanzata, viene ingiustamente accusato di una rapina. Suggestiva l’ambientazione rurale in contrapposizione a quella urbana in voga negli altri gangster movies (uno su tutti: “Scarface”) nell’America della Grande Depressione. Sulla stessa scia si collocano il didattico “Il vendicatore di Jess il bandito” e l’epico western (secondo dei tre realizzati da Lang)“Fred il ribelle”. Nel 1939 gira il suo primo film antinazista, “Duello mortale”, carico di suggestioni per un thriller avvincente con due straordinari cattivi Sanders e Carradine. Segue nel 1943 il propagandistico “Anche i boia muoiono”ambientato durante l’occupazione a Praga . L’anno successivo Lang dirige Edward Robinson e Joan Bennett nel celebre noir “La donna del ritratto”il cui finale non venne apprezzato dalla critica, ritenuto troppo sbrigativo; in realtà è illuminante data la sua unica inquadratura: un uomo non più giovane , di professione criminologo, rimane solo in città mentre la sua famiglia è in vacanza, viene colpito dal ritratto di una donna posto in una vetrina che poi finirà per incontrare davvero. Verrà coinvolto da lei nell’omicidio del suo amante e in una serie di altri crimini e misteri. Ma era solo un incubo…
Piacque molto ai critici e non allo stesso Lang invece “Il prigioniero del terrore”, del 1944, una spy story dove l’azione e i fatti la fanno da padroni, tralasciando la psicologia e avvalendosi del fantastico.
Nel 1945 si confronta con Jean Renoir , riadattando “La chienne”ma cambiando il titolo in “La strada scarlatta”, facendone un’originalissima storia psicologica da incubo, andando ancora una volta sul sicuro con la coppia Robinson-Bennett; ritorna il tema della colpa attraverso la storia di un anziano pittore dilettante sposato con una megera ma innamorato di una prostituta che , indotta dal suo protettore gli vende i quadri come se fossero suoi. Lui la uccide ma è condannato l’altro.
Dipinti, incubi, delitti e tema del doppio sono ancora una volta presenti nell’intrigante e psicoanalitico “Dietro la porta chiusa”(1948) che rimanda ad altri capolavori come “Il sospetto”, “Rebecca la prima moglie”, “Alice nel paese delle meraviglie”. Un miliardario maniaco soggetto a strane ossessioni, ha fatto ricostruire in casa una serie di camere dove si sono consumati delitti famosi; ma tra le camere ce n’è una sempre chiusa, e la sua seconda moglie (ancora una bravissima Joan Bennett), scopre ben presto che la stanza misteriosa identica alla sua.
Di nuovo ambiguità ,angoscia ritmi serrati in “Bassa marea”(1950) dove l’attenzione è tutto sul rapporto tra vittima –carnefice e quindi innocenza-crimine. Si cimenta con il western dirigendo la grande Marlene Dietrich in “Rancho Notorius” facendone un’ opera barocca e romantica al contempo. Dirigerà anche Barbara Stanwyck e Marilyn Monroe in”La confessione della signora Doyle”; Glenn Ford e Gloria Grahame in “Il grande caldo”, estremamente politico, che riflette sulla corruzione e la legalità, di atmosfera chandleriana caratterizzato da una certa variazione dei temi, tecnica di cui Lang è maestro.
Personaggi più stereotipati e nevrotici in “Gardenia blu”(1953): una giovane donna crede di aver commesso un omicidio da ubriaca e passa giorni terribili in attesa che venga arrestata, ma un abile giornalista risolverà il mistero. Di nuovo la coppia Ford- Grahame per il secondo remake diRenoir : “La bestia umana”(1954) tratto dal romanzo di Zola. Qui Lang si dimostra molto distaccato nel raccontare i suoi personaggi che probabilmente non sentiva suoi fino in fondo in quanto costretto a piegarsi alle ragioni commerciali di Hollywood che voleva un’America moralmente pulita; ma non nella resa delle atmosfere drammatiche, inconfondibili.
Lang comincia ad incontrare difficoltà, come quasi tutti i cineasti europei trapiantati negli USA, lungo il suo cammino a partire dal raffinato “Quando la città dorme”, riflessione implacabile sul cinismo e l’arrivismo nel mondo del giornalismo dove il regista tedesco non risparmia nessuno , nemmeno il personaggio più simpatico. Morto il proprietario di un grande giornale, suo figlio snob e depravato deve nominare il nuovo direttore, scegliendo tra tre candidati . Sarà scelto solo chi riuscirà a scoprire uno strangolatore di donne .La rapacità si può solo raccontare con la ferocia.
Le difficoltà in terra hollywoodiana giungono al culmine con quello che sarà il suo ultimo lavoro :l’incompreso “L’alibi era perfetto”, dello stesso anno. Un editore è per l’abolizione della pena di morte e i suoi giornali conducono una spietata campagna contro il Procuratore Distrettuale, accusato di usarla per scopi politici. Prendendo spunto da un caso irrisolto, l’omicidio di una ballerina di un night-club, suggerisce ad un giornalista, di “inventare” se stesso come assassino, costruendo con lui prove inconfutabili da esibire all’ultimo momento, ma muore in un incidente stradale…Meravigliosa opera contro la pena di morte che porta in sé un’avvincente giallo con colpo di scena finale.
Amareggiato,ritorna nella sua Germania e gira “La tigre di Eschnapur”tratto dal romanzo di sua moglie Hea von Harbou; non molto apprezzato dalla critica ma applaudito dal pubblico, perfetto dal punto di vista formale cromatico e scenografico. La storia proseguirà nel 1959 con “Il sepolcro indiano”realizzato quasi interamente nell’oscurità sotterranea.
Gli ultimi della sua carriera sono ricchi di riconoscimenti tra i quali spicca la sua presenza nel film di Godard “Il disprezzo” accanto a Brigitte Bardot e Michel Piccoli ma nessuna offerta registica gli verrà mai più offerta, sia perché era diventato quasi cieco sia perché il cinema aveva imboccato strade ben differenti dal suo cinema che non certo seguiva le logiche commerciali o faceva sognare il pubblico.
In tutti i suoi film Fritz Lang ha confermato fedeltà al proprio universo tematico e stilistico, il che di per sé non è un merito o sinonimo di grandezza, ma stupisce di volte il volta l’efficacia di questo suo modo di rappresentare certe temi, saccheggiando i romanzi e le grandi storie, attingendo non solo dall’espressionismo (per i suoi film iniziali, meno per quelli relativi al periodo hollywoodiano) ma anche dal feuilleton e dalla letteratura romantica (il doppio) e di appendice, molto popolari e apprezzati dal pubblico. E’ come se non si fosse mai mosso dalla Germania, Lang, è sempre riuscito a trasferire, lottando, i topic a lui più cari anche negli USA, grazie al suo passato da pittore , perché è con quegli occhi che Lang ha costruito il suo cinema, lo si capisce dal modo di organizzare gli spazi e di dare forma, concretezza agli incubi dell’inconscio, fotogramma dopo fotogramma. Un genio fuori dal coro , rigoroso , al tempo stesso celebratore e aguzzino dell’espressionismo.
Poco importa se i suoi film non sono cosi fruibili a tutto il pubblico poco avvezzo al pessimismo (ovviamente)e alle riflessioni amare, e quindi di successo presso il botteghino, Fritz Lang , più diMurnau ha saputo imprimere nella storia del cinema uno stile unico ed inimitabile, essendone maggiormente consapevole.
di A. Grasso per Oggialcinema.net