Dove non ci sono le frontiere, spesso s'innalzano i muri, che sono il contrario della frontiera.
Il muro, infatti, nasconde l'altro, mentre la frontiera lo riconosce.
Régis Debray
Adesso che abbiamo occhi per vedere quello che non esiste, ci rendiamo conto che alle frontiere non ci sono più insegne identificative, di quelle che imbavagliano il percorso indicandoci pretenziosamente il cammino.
L'utopia inafferrabile è nel varcare la soglia, superare le frontiere, superarsi per finire in un territorio non insediato da un immaginario prestabilito (pre-avvilito), ovvero lì dove non si possa più sapere da dove si viene e da dove si va, e il territorio sia occupato solo dal proprio corpo. Lì dove i segnali non possono più dirci niente.
Non si sa dopo quale passo inizi l'aldilà del percorso consentito. Arrivi di fronte all'orizzonte, pensi che l'attraversamento e lo scavalcamento di campo siano ancora ciò che rende clandestina, ardita e inaccettabile la tua volontà.
Sulla via del mistero, del più contrito e timoroso “sai quel che lasci, non sai quel che trovi”, le direzioni vengono meno, nessuno che ci impartisca tappe di riconoscimento forzato, vie crucis identificative, visti d'ingresso, permessi di soggiorno, carte d'imbarco, vie d'uscita o di fuga.
Non un ostacolo, ma una risorsa, accorrono le frontiere della visione, spazi liminari senza indicazioni valide per riuscire ad andare al di là del passo che stai compiendo. Valichi da sormontare con gli occhi, nei pressi di quei celebri spazi in-terminati al di là da quella.
Non accettando i confini, dunque, farsi sfrontati. Evocare ogni passaggio possibile. Irriverenti. Imprevedibili. Imprendibili. Inafferrabili. Invisibili.