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Frontiere d’Europa

Creato il 25 aprile 2011 da Libereditor

Frontiere d’EuropaAltenberg ascoltava affascinato e mentre lei macinava il caffè intuì nel suo viso il portamento dei cavalieri erranti di Sarmatia, vide le sopracciglia degli armeni, ma ben distanziate rispetto al naso; e quando Maša arrivò fin da lui, per porgergli la tazza e la zolletta emanò dalle scapole un profumo così buono che Max si rese conto di essere perduto, e che resistere era insensato, e lui che era un vecchio pesce di mare, improvvisamente sentì il richiamo forte del salmone verso le freddi sorgenti natie.
Quando uscì, in silenzio la farina stava cadendo lenta, turbinava sopra i tetti sfondati dalla guerra, sulle tombe, la fabbrica di birra ed i sui pini schierati sul pendio in alto verso la linea del fronte, e quando lei salutò sulla porta Max vide che in un attimo la neve le aveva ingrigito i lunghi capelli; in lei fiutò un impasto balcanico fatto di sangue e miele, di polvere e gelsomini, come le magnifiche donne descritte dal conte Potocki nei suoi lunghi viaggi in Asia Centrale tra i secoli diciotto e diciannove.
Scendendo al fiume poi si rese conto che Sarajevo era precipitata in un freddo di steppa siberiana e gli unici passanti nelle strade erano inquilini delle macerie che erravano abbaiando nella notte chiusi in branco per farsi compagnia. [...]

Paolo Rumiz, da La cotogna di Istanbul.

Viaggiatore, scrittore e giornalista, Paolo Rumiz conosce molto bene le frontiere dell’Europa e ne ha scritto in misura notevole. Certi suoi libri di racconti sono davvero particolari.
Ha pubblicato Vento di terra, Maschere per un massacro, La linea dei mirtilli, Gerusalemme, L’Italia in seconda classe, La leggenda dei monti naviganti, La cotogna di Istanbul, Annibale.
Ha scritto la sua prima storia quando aveva ventun anni e ha poi lavorato per Il Piccolo di Trieste, seguendo da vicino la caduta del comunismo, la disgregazione della ex Jugoslavia e le guerre nei Balcani. “Aggrappata all’estremità settentrionale del Mar Mediterraneo, Trieste, la mia città, è un sismografo, una balaustra che si affaccia su orizzonti lontani.”
In una recente intervista a Le Figaro dice di ricordarsi bene “le facce dei poliziotti comunisti alla frontiera e le donne jugoslave provenienti dalle campagne che portavano le loro brocche di latte sulla testa.” Per i suoi genitori, dice, il confine era un incubo. “Per me era semplicemente un invito a vagare, una linea oltre la quale il mistero ha avuto inizio.”
Questa curiosità, questo desiderio di andare e vagare non ha mai lasciato Paolo Rumiz, che si considera una sorta di funambolo in cammino “tra la verità del giornalismo e la trasfigurazione di poesia e narrativa”.


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