C’era questa specie di esperimento, FutureMe: scrivevi una mail e te la indirizzavi con data al futuro. Potevo scegliere di riceverla fra dieci anni – cioè ti immagini? diecianni, sai che sorpresa, sai che storia, cioè ti immagini, diecianni, quasi i quaranta – ma poiché sono impaziente, il massimo di attesa che sono riuscita a concedermi è stato un anno.
Ero su un divano grigio, in una casa bella e non nostra ma della quale fingevamo di essere padroni, le finestre bianche chiuse, le tende impalpabili di tulle bianco che toccavano a terra. Riga scorreva lenta sotto quelle finestre e io leggevo e lui mi accarezzava i piedi. Il ricordo di un momento perfetto, perfetto il ricordo, perfetto il momento. Forse era domenica ed eravamo stati al mare, forse ancora no.
Mi sono scritta questa mail velata di malinconia come tutte le cose che mi sembrano perfette, postdatandola a quel giorno un anno dopo, raccontandomi quello che vedevo di noi in quel soggiorno, dall’esterno, come se contemporaneamente fossi seduta sulla sedia di fronte al divano. Ho pensato a quella mail un paio di secondi quasi ogni giorno, ricordandone il contenuto identico a come l’avevo vissuto e a come l’avevo scritto. Me ne ricordavo troppo bene, avrei dovuto postdatarla a più in là, stupida bambina impaziente.
Poi un giorno ho smesso di pensarci, almeno per qualche giorno. E la mail è arrivata.
E ci ho visto dentro tutte le metafore del mondo.
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