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Gabriele D’Annunzio, Pisa

Da Paolorossi

Il fiume di Dante era trasfigurato, fulvido di fulgore come la riviera accesa dal riso di Beatrice, colmo fino all'orlo come una plenitudine sempiterna che non avesse foce ma origine nel mare e tutta si versasse nel cuore della città pietosa inginocchiata presso l'urna quadrilunga ov'ella custodisce pei secoli un pugno di terra santa.

- Madonna Pisa!

Obbedì a quel sospiro il grande airone sormontando la fiumana rosea.

- Madonna Pisa della Spina Ardente!

Una chiara pace era nell'aria; ma il petto dell'amante si gonfiava d'un fervore grave come un affanno. In tutta quella luce di gaudio pareva ch'ella sentisse la spina di passione custodita nel tabernacolo di marmo e di preghiera sospeso su la ripa, e che il suo sangue ravvivasse la reliquia. Ella non poteva più tenere l'anima nel serrame delle sue ossa, tanto il rapimento era forte. S'avvicinava all'estasi della città con le ali di un arcangelo folgorante. Il rombo stesso del volo si faceva remoto nel suo orecchio come nel meandro d'una conca marina.

[...]

Inginocchiata veramente e affocata d'amore era la città ai piedi del suo santuario. Soli grandeggiavano sul fiume di luce i marmi radiosi come i topazii danteschi, gli ordini delle colonne salienti come i cerchi delle bianche stole. E l'Adorante stava umile e prona, coperta dei suoi émbrici, innanzi all'erma bellezza, come nel basso delle tavole d'oro ove splende la gloria della divina Imagine sta il Donatore a mani giunte vestito di scuro lucco.

L'Àrdea roteò nel cielo di Cristo, sul prato dei miracoli. Sorvolò le cinque navi concluse del duomo, l'implicito serto del campanile inclinato sotto il fremito dei suoi bronzi, la tiara del battistero così lieve che pareva fosse per involarsi gonfia di echeggiamenti. Come più si estingueva il fulgore paradisiaco del vespero convertendosi in cerulea cenere, più s'impregnavano di luce mistica i marmi; e la serbavano nella lor pia sostanza bionda così lungamente contro l'ombra, che pareva vi trasparissero per vene alabastrine dall'interno le luminarie degli altari.

- Il camposanto! - pregò Isabella nell'orecchio del timoniere celeste. - Ora scendi verso il camposanto!

L'Àrdea rasentò le lastre di piombo. Con tutte le preghiere del silenzio la donna implorò che l'ala rimanesse sospesa nella visione di vita e di morte.

"Ah férmati!"

Non fu se non un attimo scoccato all'apice dell'anima. Fu come un'urna scoperchiata e richiusa: la grande urna quadrilunga ove la forza della città dorme fra un cipresso e un roseto, con i piedi congiunti, con le mani in croce sul petto, ben profonda nella terra del Calvario recata dalle galèe dell'Arcivescovo Ubaldo.

"Ave Maria." La salutazione angelica inchinava lo stelo del campanile a ostro. Il volo s'allontanò: lasciò sul prato in disparte, incontro alla muraglia ghibellina e alla porta bruna come il sangue cagliato, l'albore della santità marmorea non anche estinto; lasciò i tetti già lambiti dalla notte il fiume ancor pallido tra due righe di faville d'oro, il canale ingombro dal nero sonno dei navicelli. Volse a scirocco su la rasa pianura ove qua e là lucevano i fossi, passò gli acquitrini e i pascoli di Coltano, valicò la bandita dì Arno Vecchio dove sembra vivere pur sempre l'umido spirito del fiume deviato, si librò su l'amara selva del Tombolo ove forse la lonza si aggira. E ancora la bellezza dell'Ade vaporò nell'estremo crepuscolo. E ancora vi si diffuse l'odore doglioso della cuora, della resina, del legno arso.

( Gabriele D'Annunzio, Forse che si forse che no, 1910 )

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