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Gabriele Gabbia - La terra franata dei nomi

Da Ellisse

Da un po' di tempo ormai amo leggere i libri di poesia cercando di estrarvi una campionatura, un significato che vada al di là della mera testualità, una direzione, un'idea del futuro. Procedo per estrazione, spuntando quello che non solo mi piace ma che anche indica un'idea, un'intenzione, una volontà dell'autore di andare oltre l'immagine - magari mitica - che egli ha della poesia (e della parola) come attività del tutto peculiare. Apro il libro di Gabriele Gabbia, un giovane esordiente ("La terra franata dei nomi", prefazione di Mauro Germani,  L'arcolaio, 2012). In questa raccolta. i cui testi hanno una numerazione progressiva che travalica le sezioni, e quindi un continuum, la prima sezione "Diatribe dal ventre", dovrebbe forse essere la carta di presentazione delle intenzioni, se non della poetica, dell'autore, o di quello che seguirà nel libro, o del significato del suo misterioso titolo. La prima impressione che intanto ne  derivo è come di uno scaldarsi i muscoli, di sperimentare lo strumento parola, con qualche spinta a tentarne i lati oscuri o criptici o "nuovi" (ma la parola - sempre - non è mai "nuova", ci è stata consegnata, è semmai rinnovabile). In questo Gabbia non sarebbe diverso da tanti altri giovani che ritengono che la formazione dello stile passi attraverso la ricerca - anche a costo della rottura di certi nessi "sociali" - di una originalità prima di tutto linguistica. Ma intanto da questa prima sezione traspare l'idea. Cos'è "la terra franata dei nomi"? Da quello che si percepisce, un concetto più nihlista di quello del Bernard de Cluny (stat rosa pristina nomine...) citato da U. Eco: il legame tra le cose e la loro identità di nomi è spezzato per il poeta fin dalla nascita (fin dall' "impasto ventrale") che appare segnata - nota Germani nella prefazione - "dalla contraddizione e forse da una terribile casualità", i nomi che stringiamo tra le dita non hanno più nulla di "pristino", la terra di mezzo in cui dimoravano felici non esiste più. Ne consegue che "Dove non c'è dove / ogni cosa / è radice d'abisso". Ne consegue anche, direi, che si perde la funzione storica dei nomi, il loro valore memoriale. Tra nomi e cose (ecco che alfin si palesa) c'è quindi il nulla. "Nulla", con le relative isotopie, è uno dei vocaboli più presenti in questo libro. Ci si può domandare con qualche sgomento che cosa conduca un giovane a un  "nulla" certo non mistico. Se contemplare il nulla (anche come oggetto poetico) è una resa o una scorciatoia, si può dire per paradosso che il nulla nasconde qualcosa, o del reale o dell'autore. Germani acutamente cita Jabès: "la scrittura non è mai una vittoria sul nulla, ma l'esplorazione del nulla attraverso il vocabolo". Ecco qua, ecco che ci si inoltra nel libro. La scrittura, che nella prima sezione sembrava rigirata tra le dita, per quanto abilmente, come un giocattolo nuovo, riprende il posto che le compete, la sua funzione analitica, l'esplorazione di quel poco di realtà (dolorosa, vissuta, tangibile) che pure sarà sopravvissuta in questo nulla. Certo, sono frammenti, lacerti, lembi, brani (come afferma il titolo di una delle sezioni), come si conviene a una poesia che si colloca nel solco ormai canonico della crisi (ne usciremo mai?), che prende atto ancora una volta di una collocazione fin troppo periferica dell'uomo rispetto alla sua stessa esistenza. In quanto lacerti i testi sono brevi, sintetici, in molti casi come stele; se la parola viene infine trovata "tu / non gualcire quella parola", dice Gabbia, perchè non molte altre ci son date, con quella dobbiamo innervare nuove radici. Poesia del poco, della parsimonia. Ma i lacerti ci sono, e ci testimoniano che il nulla in verità è popolato dai brandelli di realtà a cui solo la  coscienza ha dato un senso durante la nostra esistenza. La parola finalmente si aggancia ad essi, vi si àncora, si ricarica di senso, e così facendo illumina gli angoli. Talvolta è il corpo ("un ceppo", "vascello abbandonato") il terreno su cui la coscienza forse recupera il sé, forse si dimostra fallace, talvolta lo strappo di perdite o il confronto di un io  disperso, esistenzialisticamente conflittuale con gli altri, la voce lontana della madre che intona le sue preci, il padre la cui assenza è come un'orma in un'auto vuota: niente altro che "spettri", come titola un'altra sezione, ovvero presenze o ombre non dissimili da quelle proiettate sulle pareti della  caverna platonica. Se qualcosa resta, nel nulla, è solo per quei nomi che è stato possibile salvare.

VII
Talvolta ti atterra il corpo addosso
ed è il cupo gorgoglio di un verbo
mentre si vaga, per ossessioni, per
stordimenti - per storni. Il corpo -
un ceppo — si allontana dallo sguardo
— suo epicentro, suo traguardo - nel candore
stridulo delle cose, ove niente
impedisce la resa, la dipartita, ove la voce
si ascolta una volta sola, mentre tutto
non torna — è molto diverso — ricomincia.

IX
Muri scontrosi in Contrada S. Croce avanzano
- adornano diafano un viso
fra scaglie residue d'un tempo rimasto
e ciò che del tempo tuo ti rimane
e l'immensa corona di spine
ogni giorno più a fondo infìssa
nel cranio d'avorio e aria
che t'è toccato in vita.

XI
Ascoltare il vuoto che ci abita
nel silenzio che assedia il mattino
ritrovando stanche membra
nella tregua che contiene le strade
gli odori, l'occhio che s'affaccia
e insegue fra i vetri vapori, o il gelo
ch'è fra noi e il cielo
-primo pianto d'inverno -
forse l'alba, d'un ultimo giorno.

XII
Un primo temporale –
T'intercetta
il suo testamento.
Tu solo
vi fai approdo: ora
l'ora ti riguarda, assembra,
l'istanza
capitola a terra. Al fine
lo spazio che attornia
t'affranca:
ora (anche tu)
   sei aria
   assolta.

XIII
La prima solitudine, nell'auto
- vettura vuota - corpo -
vascello abbandonato
. Seduto
— risucchiato nel sedile senza fondo — a fianco
dell'assenza di tuo padre. Fuori
la perdita della luce delle mani degli anni.
La perdita di tutto. Anche -
anche di questo,
ricordo.
XXX
Poi c'è quel modo
di star dentro alle cose
di starvi poggiato
fra valichi e case -
bisbigli — luci salmodie afflati
raschiano tenui
un freddo.

XXXII
Stamani avrei voluto stringerla quella vita
quella bellezza — tutto
quell'autunno al cospetto degli occhi.
   Ma la bellezza
non si stringe non si possiede —
si contiene si contempla si lascia.

XXXIII
Anche solo esser ombra su una strada
anche solo esser aria che spira
o foglia, che volteggia e si posa
nello sguardo
  che innerva
   nella sfera
l’immane
movimento della vita.

XL
Trovammo gesti fra foglie
improvvise spirali inattese
cose appartate, audaci
nel loro essere inconsuete
insolute, mordaci paure, parole
portate lì, muraglie di somme
— resti — di ciò che sappiamo e non siamo —
orme.

XLIII
Da quella lente sgorga ancora quella sera
(odo il vento che diviso ha vie)
- ricordi? Dicesti "il vento è importante" -
un riverbero di riso che occhi ha chiuso
l'incerto passo, sulle orme di case.
XLIV
Nel tuo vivere quotidiano
vi è un supplirsi a me estraneo —

   un ignoto
contenersi — un vedersi
mai più in là di ciò che si ha
di ciò che si sa — un infinito
ridotto al corpo dell'osso.

XLVIII
Sento il sibilo delle tue preci
madre

che dolce s'insinua —
è bocca che lava
ferita che strenua
   concilia
   in terra
la terra che continua -
che ancòra invoca
nel sangue della sillabe
pietà —perdono
- l'àncora del peccato.

XLIX
Io sarò voi —
i morti, tutti,
noi, voi
dopo di me, quando
solo, soffierò
lo sguardo, da ciascuno
di voi tutti
su ognuno
di me.

LIV
Con occhi sempre nuovi
hai abitato
una forza indistinta. L'hai subita
donata diffranta, ed era
il senso del vivere che si apriva
— era te —: quel
silenzio ridotto alla parola.

LX
A sera
credi
ancora nei cortili,
nella parola irrevocata
chiusa in una mano,

mentre tutto — nutrirti —
a te attorno
è una bocca che uccide
— silente — allo specchio.
I testi da VII a XXXIII sono della sezione “Lacerti, corpi, lembi. Brani di nulla”. Quelli da XL a XLVIII a “Spettri”. Quelli da XLIX a LX alla sezione “Io”.


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